Pensare il radicalismo islamico/10

vercelliPensare il radicalismo implica, alla fine dei discorsi che siamo andati facendo, trattenere il pensiero medesimo, interrogandosi sulla distruzione della ragione. Quest’ultima non è di certo una prerogativa esclusiva dell’universo dei movimenti armati a sfondo religioso (o che dicono d’essere tali, rivendicando un’autenticità di pensiero che in realtà non hanno in alcun modo). Semmai segna il passaggio dalla forza, come prerogativa difensiva degli Stati, alla violenza come strumento non solo per annientare ciò che è reputato diverso da sé ma anche e soprattutto per vincolare coloro che entrano a fare parte del gruppo, in una sorta di patto di sangue, quello versato dalle vittime di turno. Quante analogie si possano registrare con le organizzazioni mafiose ce lo dicono comunque i fatti, senza per questo da subito istituire un’immediata reciprocità. Le une e l’altro, il fondamentalismo, sono il grado zero della politica, intervenendo, scavalcando e sostituendosi a qualsiasi forma di mediazione. Non si tratta di organismi conflittuali, poiché qualsiasi soggetto che si pensi come tale, quando si trova a dovere interagire per raggiungere i suoi obiettivi, deve in qualche modo “scendere a patti” con elementi diversi da sé. La politica, in fondo, è il riconoscimento di questo pluralismo obbligato, che tempera l’assolutismo dei propri interessi, inducendo a negoziarlo con quelli altrui. Il liberalismo lo ha sancito da qualche secolo. Nel caso del fondamentalismo, invece, abbiamo a che fare con un pensiero, e delle azioni, di natura totalitaria. Tali perché si presentano, l’uno e le altre, come una sorta di universo conchiuso, in quanto realtà che obbliga a comprendere in sé tutto e tutti, dichiarando quindi indegno di esistere chi o ciò che non sia omologabile dentro un processo di azzeramento delle diversità. Si tratta, a tutto tondo, di un fenomeno antistorico, ossia che va contro l’evoluzione medesima dell’umanità, dove invece la differenziazione culturale è un tratto distintivo del suo sviluppo. Ma che, nel costituire il reciproco inverso della complessità delle società umane, è tentazione diffusa. Si tratta delle risposta banale (e qui l’aggettivo non è usato a caso), e quindi triviale, alla difficoltà di trovare un ruolo dinanzi ai cambiamenti, spesso repentini, inattesi e quindi dolorosi, introdotti della modernità. Da questo punto di vista, ovvero in un’ottica di valutazione strettamente storica, il radicalismo del quale abbiamo parlato è essenzialmente un fenomeno politico di mobilitazione collettiva ascrivibile alla contemporaneità. Esso, al di là delle genealogie di comodo, ha quindi scarsi addentellati con un’idea di passato che vada troppo all’indietro, ossia che cerchi a tutti i costi radici profonde in un tempo che si presta più alla mitografia che non alla comprensione critica. Ma, proprio per questo motivo, la pianta fondamentalista rivela di avere solide radici nel presente. Reinventando, a suo uso e consumo, la storia delle comunità e degli uomini di cui dice di essere espressione, manifesta il suo carattere mobile, la sua capacità di adattarsi ad una superficie “liquida” – quella dei giorni nostri, dove tutto scorre e nulla sembra essere in grado di fissarsi una volta per sempre -, rivelando inoltre l’abilità di prendere quello che, di volta in volta, gli serve buttando invece via tutto il resto. Così con i tre maggiori movimenti, tutti rigorosamente ad impianto terroristico, presenti sulla scena internazionale: il network di al-Qaeda, che è divenuto una sorta di consorzio di gruppi, sotto il cui cappello, dalle dimensioni adattabili alle circostanze, si celano personaggi e strutture mutevoli; gli anticristiani Boko Haram («l’educazione occidentale è peccato»), o Gruppo della Gente della Sunna per la propaganda religiosa e il Jihad, presenti nell’Africa subsahariana ed in particolare in Nigeria, dove si adoperano per spaccare la federazione, in Niger, in Ciad e in Camerun ma anche, in prospettiva, nella Libia iperfazionalizzata; ed infine, soggetto di cui ci siamo ripetutamente occupati, Daesh, o Isis o, ancora «Stato islamico», che si muove con grande agilità tra quel che resta della Siria e dell’Iraq, guardando alla Giordania orientale, al Libano e ad altro ancora. Non sono reperti del passato, segni di una barbarie che ritorna, vestigia di una religiosità oscurantista. Quanto meno, non sono riconducibili solo a questi elementi. Costituiscono semmai l’orizzonte del divenire, ovvero ciò che avanza dinanzi al fallimento delle strategie di secolarizzazione, alla marginalità di ampie fasce della popolazione dai mercati globalizzati, all’indifferenza delle élite locali, chiuse nei loro privilegi ed estranee alle dinamiche sociali che si innescano a causa della loro defezione. Quando la politica, intesa come arena della mediazione tra interessi contrapposti, si inabissa e scompare, subentrano i fondamentalismi. La cui natura, lo ricordiamo ancora una volta, è quella di identificarsi con un’idea – qualunque essa sia – dichiarando che al di fuori di essa non vi è spazio alcuno. Ma la di là della costruzione culturale, ossessivamente ribadita e violentemente imposta, rimane il fatto che il futuro del radicalismo, ed in particolare di quello a radice islamista, riposa nella sua natura di movimento di mobilitazione, capace di costruire un «noi» tanto fittizio quanto pervasivo e, per certuni, persuasivo. È questo un passaggio critico, laddove tutto viene ricondotto alla dinamica dicotomica tra amico e nemico e a null’altro, che sta riempiendo e saturando il nostro tempo. Lo scempio pubblico dei corpi, compiuto con gli omicidi ritualistici per via della decapitazione; le fucilazioni di massa dei combattenti avversari, catturati e poi eliminati a beneficio di selfie e immagini da inserire prontamente sul web, ma anche il compiacimento che si accompagna al “martirio” di una presunta “terza intifada”, sono i segnali di una tanatofilia che molti, troppi, scambiano invece ancora per la ribellione dei dannati della terra. Non c’è nessun progetto di emancipazione dietro a questo delirio di violenze gratuite ma il declino di quello che resta delle speranze in un mondo più accettabile. In fondo, non diversamente da quanto era già accaduto diversi decenni fa, in Europa, quando la peste nera e bruna soppiantò, i seppur traballanti e spesso inetti, regimi liberaldemocratici.
 
(10/fine)
 
Claudio Vercelli

(23 novembre 2014)