Periscopio – Identità di uno Stato

lucreziIl disegno di legge, recentemente approvato a maggioranza dal governo israeliano, sul carattere ebraico dello Stato d’Israele, va interpretato su due piani distinti: uno, per così dire, interno, ossia relativo all’assetto giuridico e istituzionale del Paese, e a ciò che esso significa nei confronti dei suoi cittadini, e uno esterno, legato al difficile rapporto che Israele deve gestire nei confronti dei suoi vicini, nonché del complesso della comunità internazionale. I due piani, ovviamente, sono connessi, ma è comunque opportuno tracciare una linea di demarcazione, che esiste, ed è molto rilevante.
Sul primo piano, si potrebbe dire che la legge in questione non dice nulla di nuovo, essendo il carattere ebraico di Israele definito con la massima chiarezza nella Dichiarazione d’Indipendenza (che, sul piano storico e giuridico, assume un valore normativo addirittura superiore a quello di una Carta Costituzionale), in numerose leggi dello stato, ordinarie e Fondamentali, e in molte sentenze della Corte Suprema e di altri tribunali. Ma non ci sarebbe neanche bisogno di tutti questi documenti legali – che pur ci sono: molti ed espliciti – per dare fondamento a tale principio, che è semplicemente intrinseco all’ideale sionista: esso è scolpito in ogni rigo dello ‘Judenstaat’ di Theodor Herzl, e, ancor prima, in ogni lettera della formula recitata, nei secoli, la sera di Pesach, da tutti gli ebrei del mondo, “l’anno prossimo a Gerusalemme”, in ogni pietra di ogni Aron ha-Kodesh rivolto verso la città di David, in ogni zolla di terra di Erez-Israel posata, nei cinque continenti, sulle salme dei discendenti di Giacobbe, in ogni goccia di sangue versata da ormai tante generazioni di giovani soldati ebrei morti per Israele.
Israele è la patria del popolo ebraico, a prescindere da qualsiasi legge e documento. E tale resterà.
Non mi pronuncio sulle ragioni che hanno indotto il governo israeliano a promuovere la nuova legge: essa, ovviamente, ribadisce la pienezza dei diritti assicurata a qualsiasi cittadino dello stato, indipendentemente dall’identità etnica e religiosa, ma chiarendo che i diritti nazionali sono solo quelli del popolo ebraico, che in Israele, e solo in esso, dal 1948, ha la sua patria, il stato. Sostanzialmente, non cambia assolutamente nulla.
Diversa è invece la questione del significato che la legge assume nel contesto internazionale e, specificamente, nel quadro del conflitto mediorientale. Non va dimenticato, infatti, che un punto centrale, preliminare e dirimente, che fa da ostacolo – a mio avviso, insormontabile – al cosiddetto processo di pace è il pervicace rifiuto, da parte araba e palestinese, di riconoscere il carattere ebraico di Israele. Ho avuto già modo di sottolineare come questa resistenza non rappresenti semplicemente uno dei tanti punti oggetto di trattativa, da avviare a soluzione, ma sveli piuttosto la totale malafede di una delle due parti, la quale, prima ancora di sedersi al tavolo delle trattative, asserisce di non riconoscere il suo interlocutore per quello che è. Ma allora, se le cose stanno così, si può capire di cosa si dovrebbe andare a parlare, su cosa si dovrebbe trattare? L’Autorità Palestinese (per non parlare dei ‘cugini’ di Gaza) ha più volte ribadito che il cd. “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi (il cui numero viene fatto crescere, di giorno in giorno, in modo esponenziale) non è negoziabile, e qualsiasi soluzione di pace dovrà comportare l’ingresso in Israele (non nello Stato di Palestina, ovviamente) di diversi milioni di arabi, che vanterebbero un presunto titolo di cittadinanza: Israele, pertanto, non sarà più uno Stato ebraico, e non lo deve essere neanche adesso.
Questa è la situazione, ed è alla luce di tale contesto che la recente legge va valutata. Credo che il governo di Israele abbia voluto dire una cosa molto semplice ai suoi interlocutori, ossia che essi potranno fare la pace, come la guerra: ma entrambe, tanto la pace quanto la guerra, potranno farle solo con lo Stato di Israele, così come esso è resterà: la patria del popolo ebraico.

Francesco Lucrezi, storico

(26 novembre 2014)