…invidia

Non ho mai saputo che cosa sia l’invidia, ma oggi più che mai invidio coloro che, da una parte e dall’altra, hanno risposte sicure per le proprie domande. Invidio i Guru del pensiero e invidio i generosi d’animo, invidio coloro che perdonano per professione e invidio coloro che per professione odiano. E invidio coloro che sanno bene che cosa si sarebbe dovuto fare ieri e sanno benissimo che cosa si dovrà fare domani.
Oggi più che mai sarebbe necessario trovare semplici risposte, e si riesce invece a porsi soltanto difficili domande. Quel che è certo, però, è che da oggi si può cominciare a dire ciò che ieri non si sarebbe osato dire. E proveremo almeno il gusto della sincerità, libera dalla retorica demagogica della diplomazia e dal ‘politically correct’.
Il terrore di questi giorni in Francia ci fa sentire tutti un po’ francesi, e non nel senso vuoto di una retorica che dura il tempo del dirlo, ma nel senso che ci riconosciamo finalmente tutti comparse di un momento storico che non permette a nessuno di chiamarsi fuori. Ciò che è successo lì, può accadere domani anche qui, ciò che è successo a loro può accadere domani anche a noi. Non un ‘noi’ improbabile, indefinito e lontano, ma a me e a te.
È utile allora interrogarsi su alcuni argomenti.
Quali sono i limiti della satira? Ho il diritto di uccidere chi offende il mio Dio? È un Dio quello che dopo aver creato l’uomo chiede a un altro uomo di ucciderlo? O quello che chiede di sfregiare una ragazzina che vuole studiare? Io penso di no, ma mi rendo conto che non tutti la pensiamo allo stesso modo. Spesso Charlie Hebdo ha fatto satira antisemita, e per questo il giornale mi può stare poco simpatico; magari ha anche confuso e prodotto confusione fra ebrei e israeliani, e non ha fatto certo divulgazione culturale obiettiva; forse non lo comprerò, ma non per questo ho mai desiderato distruggerne i giornalisti: me lo ha impedito la mia cultura, non solo la legge del mio paese. Allora, mi chiedo – e non avrei osato chiedermelo ieri – da dove viene la cultura che manda un uomo a uccidere per difendere il suo Dio, o la sua idea di Dio? L’autorevole Financial Times ha sostenuto che la satira ha superato i limiti e si è chiamata addosso una comprensibile ritorsione. Il Financial Times ha detto una grossa idiozia, indipendentemente dai se e dai ma che possono averla limitata. Molti hanno offeso la mia sensibilità, anche la più intima, amici e nemici, ebrei e non ebrei. Mai mi sono sognato che valesse la pena ucciderli. Va contro la mia cultura. Magari quando li incontro mi volto dall’altra parte e non li saluto. E questo mi basta.
Ora, la mia formazione di sinistra mi spinge a cercare le lontane cause sociali del presente, e mi dice che l’isolamento, l’emarginazione di tanti migranti hanno certamente prodotto il disagio che spinge alcuni di loro al riscatto del terrorismo. Ma i miei parenti licenziati dal lavoro in quanto ebrei, i miei genitori fuggiti in Svizzera e derubati di tutto, i miei nonni e i miei cugini gassati ad Auschwitz non hanno prodotto in me (e in nessuno degli ebrei che conosco) la voglia di ricambiare col terrore le istituzioni che ci emarginarono e ci abbandonarono e i vicini di casa che ci tradirono e magari si impossessarono di ciò che era nostro. Un’altra cultura, forse, o magari solo mancanza di fantasia e di intraprendenza.
Quel che è certo – e non avrei osato dirlo ieri – è che esiste una fetta di società e di cultura che fa un uso spregiudicato della religione. Lo fanno anche una parte dei miei amici israeliani, per occupare miserabili pezzetti di terra. E, detto questo – con timore e tremore –, posso aggiungere allora che lo fanno anche settori dell’Islam, appoggiati, o quanto meno ‘compresi’ da altri settori dell’Islam, un po’ più ampi, quei settori ai quali piace riconoscere in Israele la colpa di ogni male e l’obiettivo da colpire e annientare. Se poi si colpisce soltanto un povero ebreo che vive magari in Svezia, poco male. Il petardo fa rumore comunque.
Ai tempi delle Brigate Rosse si parlava di collateralismo, ed era quello degli idealisti di sinistra che, in un modo o nell’altro, giustificavano o quanto meno ‘comprendevano’ le ragioni dei brigatisti, che un certo ritegno impediva di chiamare terroristi. Bene, lo stesso è accaduto negli anni passati a proposito dei ‘combattenti’ per la libertà della Palestina, di coloro che piazzavano bombe alle fermate degli autobus. Intrepidi combattenti che con il loro kalashnikov facevano la guerra non ai soldati dell’esercito israeliano ma ai bambini delle scuole e agli avventori dei caffè. Collateralismo terzomondista, pacifista, di sinistra, anche quello.
Il terrorismo è la prassi di una minoranza? Non ne siamo certi, e la situazione che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, per ora solo nello schermo televisivo, dovrebbe dirci quanto si stia diffondendo l’idea di un Islam espansionista, che vuole imporre i suoi modelli ideologici. Gli islamici moderati sono sicuramente una grandissima maggioranza, ma i terroristi e i loro adepti non sono più un numero esiguo, e non sono neppure più così lontani, e non siamo sicuri che siano del tutto soli. Se non ci fanno affetto le teste decapitate dalle bestie dell’ISIS, nella lontana Siria o i duemila massacrati di Boko Haram nella lontanissima Nigeria, devono preoccuparci almeno (anche se con un po’ di necessaria vergogna, almeno) i cinque o sei morti a Parigi, nel centro dell’Europa. Se a farci comprendere il rischio che corre l’Europa sono stati gli avvenimenti di Parigi, diremo allora, con infinitissimo imbarazzo, che era ora che accadesse. È come se l’Europa lo avesse atteso con trepidazione. L’Europa di sinistra, illuminata, pacifista e terzomondista, che finora ha scelto di voltare la faccia dall’altra parte, e l’Europa di destra che ora potrà servirsene per la propaganda della prossima tornata elettorale.
Ora ci confrontiamo con i nostri preconcetti di sinistra, vergognandoci non poco di cominciare a condividere i distorti e disumani preconcetti della destra, barricata da sempre dietro alle idee di ordine e di ‘tradizione cristiana’, affidando il rapporto con la diversità alla mera pratica della discriminazione. Rischieremo un giorno non troppo lontano di votare Matteo Salvini, o Marine Le Pen?
Ora l’Europa si risveglia dal torpore. Ma non si è svegliata troppo, e comunque si è ben presto riassopita, quando il terrore islamico ha assaltato sinagoghe e scuole e ammazzato ebrei in Francia (Tolosa 2012) e in Belgio (giugno 2014 al Museo ebraico di Bruxelles). Lo scandalo è durato un attimo e poi è passato nel dimenticatoio della storia, quella grande e lontana degli archivi polverosi. L’antisemitismo non era problema francese, quando l’ebreo ventitreenne Ilan Halimi fu torturato per un mese e ucciso da Youssuf Fofana e dai suoi giovani amici in una banlieue parigina. E la Francia sta ancora dormendo sonni tranquilli di fronte agli ebrei che da qualche anno lasciano a migliaia il paese per trovare il solito, unico rifugio in Israele. Qualche benevolo antisemita potrà affermare trattarsi di un’emigrazione a fini di colonizzazione sionista. Fatto sta che forse l’emigrazione ebraica alleggerirà, agli occhi dei francesi, la tensione fra i cinquecentomila ebrei e i sei milioni di islamici. Un vero sollievo.
Alla Francia, in questo momento, va naturalmente tutta la solidarietà del mondo civile, ma la Francia si sveglia oggi di fronte alla ferita che le viene inferta al cuore. Delle ferite marginali non si era curata troppo: erano solo graffietti. Ora la Francia ha paura, e ha paura l’Europa. Ma in Francia e in Europa c’è chi vive da anni nella paura, abituato a guardarsi le spalle. Le nostre sinagoghe sono presidiate da anni, in tutta Europa. A Parigi da anni si consiglia agli ebrei osservanti di mimetizzarsi, di non girare con la kippà in testa. Nascondersi è la norma, come ai bei tempi dell’Inquisizione o del nazismo. Vivere nascosti, da marrani. Questo non è affatto grave quanto lo sono le vignette sul Profeta, naturalmente.
Resta infine un problema da affrontare, ed è quello della retorica, intesa nel peggiore dei sensi possibili: l’enfasi vuota che falsa i sentimenti e deforma la realtà stessa. Tutti oggi si vantano di affermare “Je suis Charlie”. Bene, IO NON SONO CHARLIE, perché Charlie può non essermi piaciuto in tempi passati, e tuttavia Charlie aveva il diritto di continuare a vivere anche se non era proprio me stesso. Ma io non sono neppure l’Islam, perché certo Islam può non piacermi e quell’altro Islam, quello dal volto gradevole, non ho avuto modo di conoscerlo, e avrei voluto sentirlo più vicino agli ideali di rispetto dell’altro, anche quando non si trattava proprio di rivendicare i suoi propri diritti, ma i diritti dell’altro. Credo che il motto di cui ci si dovrebbe appropriare sia “Io non sono Charlie, ma Charlie ha, ciò malgrado, il diritto di vivere e di essere rispettato”. Io sono per la convivenza civile e per il rispetto reciproco. E sono a favore dei rapporti civili con tutti color che sanno distinguere il diverso da sé e rispettarlo proprio in quanto diverso. In un rapporto di perfetta reciprocità. È troppo facile amare il prossimo, quando lo senti uguale a te. Il problema è sopportare chi non ti piace, senza per questo meditare di sopprimerlo. Del resto, se così non fosse, non saremmo brutalmente umani.

Dario Calimani, anglista

(13 gennaio 2015)