Qui Parigi – La scelta dell’Aliyah

hollande netanyahu sinagoga parigi“La nostra casa è la Francia”, ha dichiarato rav Moshe Sebbag, rabbino della Grande Synagogue di Parigi, intervistato dall’emittente Franceinfo domenica scorsa, a margine della grande manifestazione contro il terrorismo e in favore della democrazia svoltasi nella Capitale francese. È una risposta indiretta all’invito del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che dopo l’attentato di venerdì al supermarket casher di Porte de Vincennes aveva dichiarato: “Vorrei dire a tutti gli ebrei di Francia e d’Europa: Israele è la vostra casa”. Parole che hanno scatenato un dibattito approdato sui maggiori quotidiani israeliani e non solo. Un dibattito che poggia su alcune domande fondamentali: cos’è la Francia (ma si potrebbe allargare la questione a molti paesi europei) per gli ebrei francesi? Cos’è Israele per il mondo ebraico francese? Cosa sono gli ebrei per la Francia (anche qui, la domanda è estendibile a tutte le nazioni europee e non solo)? Partiamo da quest’ultima: “La Francia senza ebrei non è la Francia”, ha dichiarato il primo ministro Manuel Valls. Bene, ma cosa hanno fatto le istituzioni transalpine per proteggere i propri cittadini ebrei? “Vogliamo azioni, non parole”, il concetto espresso da Roger Cukierman, presidente del Crif (Conseil Représentatif des Institutions juives,), l’ente rappresentativo dell’ebraismo francese. Anche dopo la strage di Tolosa erano state fatte molte rassicurazioni, eppure ora si piangono le vittime di Parigi, una delle sofferte obiezioni poste dagli ebrei transalpini ai propri rappresentanti politici. E così l’invito di Netanyahu, che come raccontano i media d’Oltralpe ha irritato non poco l’Eliseo, suona come un affondo sulla questione sicurezza (il premier israeliano ha poi stemperato le sue affermazioni, dichiarando nella cerimonia di domenica alla Sinagoga Grande di Parigi, “Avete il diritto di vivere in sicurezza e in pace in ogni luogo dove desiderate vivere”). E la sicurezza è da sempre uno dei punti cardine della politica di Netanyahu: ma è giusto invocare l’aliyah come risposta ai gravi episodi di antisemitismo, come soluzione alla minaccia terroristica di matrice islamica? Per Chemi Shalev, editorialista di Haaretz, no. Per Haim Shine, firma di Israel Hayom, sì. Due punti di vista, emersi nei media israeliani, che riassumono opposte motivazioni. Per il primo “non c’è niente di male nella promozione da parte di Israele dell’immigrazione, preferibilmente per scelta e non per paura, ma questa settimana non era il momento per lanciare questa campagna”. Secondo Shalev, l’appello di Netanyahu e di altri politici israeliani “può aiutare molto i terroristi fanatici a finire il lavoro iniziato dai nazisti e dai collaborazionisti di Vichy: far diventare la Francia Judenrein”. Per Shalev dunque invocare l’Aliyah di fronte alla violenza assassina del terrorismo islamico vuol dire concederli una vittoria.
“Gli ebrei di Francia devono svegliarsi e capire che l’unico posto dove il loro futuro è sicuro è qui (in Israele)”, il pensiero di Haim, evidentemente opposto a quello di Shalev. “Qui siamo indipendenti dalla buona volontà degli stranieri – afferma Haim – La vita ebraica ha un significato solo quando viene portata avanti nella nostra patria, la Terra di Israele”. D’accordo con Haim – con toni più fatalisti – l’editoriale di Paula Stern pubblicato da Arutz Sheva: “Il momento è arrivato, le nubi si stanno raccogliendo. Per favore, ebrei di Francia andate via dalla Francia ora. Venite (in Israele) prima della tempesta, prima di altri morti”, scrive la Stern, guardando alla Francia e all’Europa come una realtà oramai in mano al fondamentalismo islamico.
Ma se Israele rimane un punto di riferimento per gli ebrei francesi, in molti non vogliono fare l’aliyah per questioni di sicurezza. “Non voglio più sentir dire che noi ebrei francesi abbiamo paura; continueremo a portare la kippah in testa, continueremo a mangiare kasher. Dobbiamo essere fieri di essere ebrei, di essere francesi e di vivere nella Democrazia”, l’applaudito intervento domenica in sinagoga di Joel Mergui, presidente del Consistoire central israélite de France.

Daniel Reichel

(13 gennaio 2015)