Dieudonné

vercelliSe si vuole cogliere il senso, neanche troppo sofisticato, ad onore del vero, delle incestuose contaminazioni tra quello che resta di una certa sinistra radicale, in questo caso autodefinitasi «anti-imperialista», e le vecchie e nuove ramificazioni di una destra fascistoide alla ricerca di un uovo respiro populistico, che trovano nell’antisemitismo un loro punto di coagulo, la traiettoria del ‘comico’ ed ‘umorista’ Dieudonné è emblematica.
Poiché, proveniendo dal magmatico arcipelago dell’antirazzismo, spesso contraddittorio, dal quale ha preso le mosse prima come autore e attore, poi come politico sui generis, ha raccolto su di sé molti aspetti della transizione dalla legittima lotta contro il rifiuto della diversità, laddove quest’ultima è invece intesa come uno stigma sociale, all’enfatica valorizzazione della ‘differenza’ come tratto sul quale costruire una piattaforma ideologica di rigetto del repubblicanesimo francese e, più in generale, europeo.
Altri sono gli aedi culturali di questo mutamento, di un tale smottamento di pensieri dove alla critica dell’esistente si sostituisce l’esaltazione di una presunta «identità» il cui fondamento è giocato esclusivamente sul vittimismo e sulla ripetizione ossessiva del paradigma del risarcimento: “Siamo stati defraudati, esistiamo perché abbiamo il diritto ad esercitare la rivalsa” paiono dire all’unisono costoro. Ma rimane il fatto che il triste figuro, il polemista che calca le scene, e con successo, del mondo dello spettacolo francese, abbia dalla sua un pubblico (pagante) che gli intellettuali rosso-bruni spesso possono solo invidiargli.
Naturalmente, nella meccanica del dileggio che utilizza per accreditarsi come coscienza critica, fa ricorso al perno del «complotto sionista» come elemento intorno al quale ruotare tutto e tutti. Il ‘tutto’ della falsa comprensione del presente, nella sua concreta complessità, ridotta invece ad uno slogan (atteggiamento che galvanizza molti degli ascoltatori, proprio in quanto semplificazione della complessità delle cose, dell’esistente e della stessa esistenza), e quei ‘tutti’ che diventano astanti, figuranti, maschere e protagonisti fittizi – in una parola, pubblico adorante – della tragica ricostruzione del tempo corrente che Dieudonné dà in pasto alle folle. La «quenelle», il gesto ingiurioso che mima il saluto nazista (impedito da un ipotetico divieto, manifestato dall’imposizione del braccio opposto), è un corredo di questo dispostivo retorico, il cui obiettivo è quello di rivendicare una presunta libertà di espressione e di giudizio che sarebbe lesa, se non completamente impedita, dalle autorità e dal ‘potere’ così come dal giudizio di senso comune. Le une e l’altro prodotto di una sorta di «Nuovo ordine mondiale», quello che alimenta gli incubi dei complottisti. Non a caso Dieudonné, prima ancora che dichiararsi contro qualcuno, finge candidamente, con falsa ingenuità, di essere ‘a favore’ di qualcosa: l’autonomia di manifestazione di un giudizio che, dichiarandosi contro le convenzioni prevalenti, e quindi ‘anticonformista’, riesce così a dissimulare la sua intima natura di pregiudizio totale. Siamo nei paraggi del negazionismo, come sistema non tanto di falsificazione del dato storico quanto di costruzione di una narrazione antitetica a quella che dall’onesto ricorso ai dati di atto inevitabilmente deriva.
Il polemista non poteva quindi mancare l’appuntamento con i tragici eventi che hanno colpito Charlie Hebdo. Poiché in gioco è anche la libertà di espressione, da Dieudonné intesa come una coperta troppo preziosa per lasciarla ad altri. Il personaggio, come sappiamo, è infatti tornato a fare discutere la Francia nei giorni trascorsi, quando la procura di Parigi ha aperto a suo carico un’inchiesta per apologia di terrorismo. Domenica sera, dopo la marcia di Parigi, cui aveva preso parte, Dieudonné ha scritto su Facebook di sentirsi «Charlie Coulibaly», unendo il nome del giornale satirico, colpito a Parigi dagli attentatori, e quello di uno dei terroristi, Amedy Coulibaly. Quest’ultimo, come i lettori ricorderanno, è l’artefice del sanguinario assalto al supermercato di prodotti casher, conclusosi con l’intervento delle forze dell’ordine. Giocando volutamente su più piani, per creare e rinnovare, come da sua inveterata abitudine, una calcolata confusione e una trepidante attesa tra i suoi lettori e ascoltatori, prima di sferrare il tiro mancino (quello che nella costruzione retorica delle sue comunicazioni serve a ‘fare chiarezza’, superando la suspense iniziale per giungere poi ad indicare quale sia la ‘giusta interpretazione”’), nel suo post, il triste comico (sic!) ha definito, con linguaggio immaginifico ed ipertrofico, la marcia parigina come «leggendaria», ovvero «un istante magico paragonabile al big-bang» ma, ha immediatamente aggiunto, «sappiate che stasera, per quanto mi riguarda, io mi sento Charlie Coulibaly». Provocazione deliberata, una specie di orgasmo linguistico e semantico, dove i due estremi, le vittime e i carnefici, vengono messi insieme, volutamente mischiati.
Poiché è da questa confusione tra ruoli, altrimenti rigorosamente distinti, ovvero opposti, che Dieudonné costruisce, così come quelli della sua schiera e schiatta, le proprie fortune: una finta immedesimazione in un evento tragico che diventa da subito parificazione, e quindi annullamento, delle responsabilità. Ma il gioco dialettico non finisce qui poiché l’obiettivo ultimo è il ribaltamento delle colpe. Ad essere per davvero, alla fine della fiera, ‘colpevoli’ di qualcosa, sono in fondo coloro che vengono considerati dall’opinione pubblica come le autentiche vittime. Perché queste ultime porterebbero su di sé l’onere di essere l’anello ultimo di una lunga catena di nequizie, a causa delle quali si sarebbe scatenata – adesso – la giusta collera degli offesi: i francesi colonialisti, gli europei schiavisti, i sionisti imperialisti, gli ebrei prevaricatori eccetera. In fondo, argomentano quelli come il ‘comico’, i terroristi sono solo vittime delle vittime. Rispondendo alle provocazioni di queste ultime.
Una tragica pantomima linguistica, quest’ultima, che è stata iniziata da autorevoli critici e ripresa, come moneta grezza, da gettare contro i propri ‘nemici’, nel capovolgimento dei rapporti e nel tentativo di distruggere ogni legittimità alle repliche del caso. Il rimando al conflitto israelo-palestinese, in questi casi, si fa irresistibile perché permette di capovolgere tutti gli schemi, ricostruendoli a propria immagine e somiglianza. Il suo antisemitismo usa questa logica per legittimarsi, per dare sostanza e raccogliere consensi tra un pubblico che ride perché intimamente impaurito del presente ed incapace di pensare al futuro; alla ricerca – quindi – di spiegazioni elementari, usando categorie mentali e identificazioni emotive volutamente e deliberatamente impossibilitate del rendere conto della complessità dei meccanismi in atto. La logica binaria amico/nemico, intruppata dentro l’urlo della tribù, torna ad essere l’unica istanza alla quale fare riferimento, raccogliendo con ciò il compiacimento di una collettività ridotta indistintamente a ‘gente’, a sua volta divenuta pubblico di una raffigurazione nel medesimo tempo triste e feroce. Il fatto che vi siano non pochi figli di un’emancipazione perduta che scambino, nell’età della globalizzazione, questo equivoco deliberato per ciò che invece non è, ossia una speranza, la dice lunga sulla commistione della quale andiamo ragionando. Poiché il linguaggio dell’attore e politico francese non è quello della liberazione bensì della paura e della rabbia. Come nel caso dei populisti italiani.
Torniamo ai fatti più recenti. Un’inchiesta pendeva già sul capo di Dieudonné da settembre dell’anno scorso, quando aveva pesantemente ironizzato sullo sgozzamento e sulla decapitazione del giornalista americano James Foley per mano dei jihadisti siro-iracheni del Daesh. Dieudonné è un re del kitsch, del pari agli stessi fondamentalisti assassini. E il kitsch, che non è una categoria estetica che rinvia al ‘cattivo gusto’ ma è un modo di rapportarsi all’esistente, alla vita, riducendo l’uno e l’altra ad un oggetto, del pari ad un sacco di patate, è un potente fermento dei fascismi. Il post più recente, quello incriminato, comparso sul social network di Mark Zuckeberg, era stato in un primo tempo rimosso, probabilmente dallo stesso estensore, per poi però ricomparire su Twitter. Il testo, nella sua interezza, recita così: «Après cette marche historique, que dis-je… Légendaire! Instant magique égal au Big Bang qui créa l’Univers! …ou dans une moindre mesure ( plus locale ) comparable au couronnement de Vercingétorix, je rentre enfin chez moi. Sachez que ce soir, en ce qui me concerne, je me sens Charlie Coulibaly». Le parole contenutevi sono state subissate da una valanga di critiche, invettive come anche di insulti.
In tutta probabilità Dieudonné aveva capito ben presto di avere sbagliato tempi, modi e, soprattutto, obiettivi ma, a quel punto, c’era chi aveva già fatto lo screenshot del messaggio per riversarlo su un altro network. Da ciò, quindi, l’intervento della magistratura francese che, dinnanzi all’indisponibilità dell’autore a recarsi negli uffici della Procura, tempestivamente convocato dai medesimi per rendere conto della sua ennesima provocazione, ne ha disposto il trasporto coatto per ripondere ai quesiti degli inquirenti. Che nel mentre hanno aperto un fascicolo, l’ulteriore, a suo carico, per apologia di terrorismo.
Un reato per il quale le autorità francesi hanno promesso massima severità. Già nei giorni scorsi, infatti, il tribunale di Tolone, aveva emesso una condanna a tre mesi, senza il beneficio della condizionale, a carico di un uomo che aveva postato su Facebook foto e messaggi inneggianti al Jihad, compiacendosi per i crimini della settimana precedente. Dopo le vicende di lunedì scorso, presentate erroneamente dalla stampa come un «arresto», trattandosi invece dell’esecuzione forzata dal mandato di comparizione, Dieudonné, come è di sua prassi, ha subito rivestito i panni della vittima, che gli sono consustanziali. Il doppio registro che contempla provocazione e vittimismo è, infatti, alla radice del suo modo di proporsi al pubblico francese. Per sedurlo con il lamento del coniglio mannaro. In tali vesti, quindi, ha redatto e reso pubblica una lettera aperta al ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve, in cui imputa allo Stato francese la responsabilità di trattarlo «come il nemico pubblico numero uno», quando lui, invece, cercherebbe «solo di far ridere», proprio come «Charlie Hebdo». Rincarando la dose: «Quando io mi esprimo, non si cerca di capirmi, non mi si vuole ascoltare. Si cerca un pretesto per vietarmi. Mi si considera come Coulibaly mentre non sono diverso da Charlie», scrive Dieudonné, che dice di sentirsi perseguitato a prescindere. E giù, a seguire, l’elenco dei soprusi patiti: perquisizioni immotivate, mancata protezione della polizia in presenza delle altrui provocazioni, controlli fiscali bizantini e irragionevoli, divieti oppure ostacoli al normale esercizio della sua professione in pubblico, una sequela di inchieste e procedure giudiziarie, linciaggi mediatici, isolamento e quant’altro. A parte il fatto che l’affabulata reazione, in quest’ultimo caso, ha anche il sapore di un tentativo tardivo di riparare alla frittata causata dalle sconsiderate dichiarazione messe su Facebook, rimane l’elemento di fondo, ossia che tra gli umori che un Dieudonné raccoglie, dando ad essi una qualche forma compiuta, e le motivazioni criminali dei terroristi c’è più di un legame. Non è solamente il segno della compromissione di un attore-politico, capace di fiutare dove il vento tira per mettersi sulla lunghezza d’onda del risentimento, ma anche il bisogno, da parti di molti tra coloro che vanno ad ascoltarlo e ad applaudirlo a scena aperta, di riconoscersi in una imbelle critica del potere che, fingendosi sarcasmo e vestendosi dell’irriverenza, è in realtà non la premessa di un progetto di cambiamento ma il suggello della subalternità e dell’impotenza. La forza del pregiudizio è, per l’appunto, anche questa, laddove simula la liberazione quando in realtà celebra l’asservimento delle coscienze.

Claudio Vercelli

(18 gennaio 2015)