Il complotto

vercelliPartiamo da un riscontro: la caratteristica precipua di qualsiasi menzogna è di presentarsi al pubblico come verità inconfutabile, incontrovertibile, indiscutibile. Quando un racconto fittizio è ben strutturato, funziona come un congegno lineare, va avanti in automatico, quasi con un moto inerziale, contenendo in sé i mezzi per non essere demolito in quanto tale. La falsità è – purtroppo – assai spesso più forte di qualsiasi tentativo di ricerca della verità. Parliamo volutamente di ‘ricerca’, poiché è proprio di chi falsifica il presentarsi come colui che ha invece in tasca la ‘verità’ preconfezionata.
Mentre il dubbio, alla ricerca di un riscontro e di verifiche (e non come abito ossessivo, indossato dinanzi ad ogni affermazione altrui come una sorta di strumento per distruggerne la credibilità), è il punto da cui partire per dare senso alle cose del mondo. E quindi anche alla sua storia. Scrive Georges Bensoussan, parlando di negazionismo e antisionismo, che: «La raison marque là ses limites face à un système de pensée tautologique, clos sur lui-même, oû la réponse précède la question et où l’essence explique l’existence». Gli fa eco David Bidussa quando, commentando la struttura interna dei «Protocolli dei Savi anziani di Sion», vero paradigma non solo dell’antisemitismo ma anche del cospirazionismo moderno, osserva che: «è al livello assertivo dei Protocolli che occorre prestare attenzione. Questo infatti presenta un andamento duale: mentre la scrittura è analitico-descrittiva (ossia ci informa di fatti e circostanze), la cifra è, invece, prescrittivo-teorica (ossia stabilisce una consequenzialità tra fatto presunto e personalità dell’attore)». In altre parole, la partitura recitata è vera non per quello che contiene ma per l’identità di chi la recita. «In sintesi, la logica dei Protocolli si può così riassumere: gli ebrei sono i protagonisti dei Protocolli perché sono ebrei. In altri termini, i Protocolli sono un testo che fa un ‘un mito del mito’. A fronte di questa logica il meccanismo della controprova è del tutto inutilizzabile. I Protocolli non necessitano che si sia ‘visto’ qualcosa, ma che qualcosa sia possibile e credibile. In questo non differiscono dalle leggende metropolitane. Come quelle, infatti, si legittimano sul ‘rumore’, sulle cose che si sono ascoltate da qualcuno, più che da quelle che si sono viste direttamente, anche se il meccanismo del passaparola le rende nel tam-tam verbale ‘viste’ ».
E allora, aggiungiamo noi, un evento o una cosa sono tanto più verosimili quanto meno sono veri, se quest’ultima qualità si fonda sulla verifica empirica. Poiché essi alimentano i rumori di sottofondo che sono fondamentali per un tipo di comunicazione basata sul bisbiglio che si fa poi, per forza cumulativa, urlo liberatorio. Sono delle valvole di sfogo attraverso le quali sfiatare la rabbia che sta in corpo, dando ad essa per l’appunto un corpo autonomo, quello della minaccia interna che va per questo espulsa immediatamente. Ancora Bidussa: «Nell’immagine del complotto proprio delle società tradizionali, gli elementi costitutivi sono dati dalla trasparenza del potere e dalla opacità della società. Il sospetto si volge a indagare settori della società. In questione non è l’identità del potere, ma quella della società, che appare ambigua. Viceversa, nell’immagine del complotto proprio delle società moderne è il potere a essere in discussione e sotto indagine. La denuncia del complotto in questo caso avviene in nome del funzionamento democratico della società. Anzi si accredita come il fondamento democratico della società, depositario di un bene incorrotto a fronte di un potere incerto, soggetto a sollecitazioni spesso non chiare, dominato da poteri, competenze e forze su cui non ha autorevolezza e a fronte del quale non si erge nessun contropotere».
In internet, nei social network, tutto questo trova forza amplificata. La ‘bassa intensità’ dei messaggi sul web produce l’effetto – paradossale e perverso – di renderli socialmente accettabili. Cosa vuol dire? Molta informazione, o comunque una molecolarizzazione della stessa, che circola in un’infinità di forme ed in una pluralità di contenuti, molti dei quali inverificabili; inflazione di dati e di opinioni, le seconde sovrapposte ai primi (più raramente viceversa); mancanza o difetto di codici interpretativi comuni, ovvero condivisi, che per loro natura non si generano da sé, e men che meno in un contesto virtuale, ma richiedono l’intervento di agenzie di formazione e socializzazione quali la scuola, scalzate in più funzioni dai new media. Anche da ciò, in un ambito di società della comunicazione, dove siamo perennemente immersi in un flusso incontrollato (e incontrollabile) di sollecitazioni, laddove la nostra attenzione è costantemente richiamata da una miriade di interessi ma fatica ad organizzarsi in una sequenza ragionata di saperi, il complotto, come forma corrotta di interpretazione dell’esistente, trova nuova linfa.
Peraltro, non basta rifarsi solo al mezzo (il web) e non al contesto sociale e culturale per cercare di capire quale sia la radice di questo nuovo bisogno di darsi una ragione di qualcosa che, altrimenti, pare essere incomprensibile. Sia sufficiente osservare che i concetti tradizionalmente regolanti la vita in società sono oggi sospesi tra rivendicazioni identitarie e ricerca di libertà individuale, tra globalizzazione dei rapporti umani e sensazione di sradicamento culturale. La dialettica tra particolare e universale si inserisce dentro una dinamica più ampia di spaesamento e spiazzamento.
Letteralmente, si vive tra due forze contrapposte, non mediate in maniera dialettica: il locale e il globale, laddove al primo si è costretti, vincolati, ancorati, legati, quasi imprigionati, nel mentre il secondo diventa un orizzonte sempre meno tangibile, richiamato in ogni discorso ma precluso ai più. Gli eventi collettivi, quindi, non solo accadono ma diventano spesso inesplicabili. Letteralmente, ci ‘cadono addosso’. Basti pensare agli effetti perversi di una crisi economica perdurante, della quale sappiamo molto – essendone a vario titolo informati – ma su cui non possiamo in alcun modo incidere, se non nei termini di piccole tattiche di sopravvivenza o, comunque, di resistenza e resilienza. L’azione collettiva di trasformazione, quella consapevole partecipazione ad un movimento che volge verso obiettivi condivisi di mutamento consensuale, pare essere stata completamente azzerata, consegnata alle soffitte della storia. Sostituita da una sorta di eterodirezione dei fatti. In questo contesto, ognuno diventa libero di forgiarsi una sorta di ‘concezione del mondo’ – e del perché delle disuguaglianze, così come delle differenze di ruolo, di potere, di forza – senza necessariamente rifarsi ai metodi della razionalità obiettiva. Poiché mentre la seconda invita a cogliere la complessità e la stratificazione dei fatti, delle cose, delle persone, degli attori pubblici, la visione individualista assolve alla duplice funzione di mettere al centro delle proprie riflessioni se stessi (coloro che pensano al mondo come ad una proiezione del proprio ego) e di semplificare la vastità dei processi in atto, riconducendoli ad un unico denominatore.
Segnatamente, anche da ciò nasce la forza della visione complottistica del mondo. Internet, da tale punto di vista, favorisce la frammentazione del sapere stabilito, quello ‘istituzionale’. Da un lato mette in discussione l’autorevolezza delle fonti e dei codici, istituendo una falsa reciprocità e una fittizia omologazione tra metodi, criteri e anche atteggiamenti diversi. Come se tutto si equivalesse. Ciò facendo, arreca danno alla credibilità delle istituzioni scientifiche. Non di meno, ed è il secondo punto, definisce tale stato di letterale confusione come invece espressione di libertà. E si tratta di un inganno tanto incredibile, ad una sua disamina razionale, quanto creduto dall’incoscienza dei tanti. Lo spazio d’internet gioca sul punto di intersezione tra pubblico e privato, essendo il virtuale una sorta di dimensione terza che abroga la separazione tra le due dimensioni. I discorsi complottisti, razzisti e negazionisti (le tre cose spesso si tengono insieme) hanno saputo collocarsi nel nuovo spazio collettivo del web, giocando sul disorientamento concettuale e percettivo della storia contemporanea. La memoria corta incentivata dai siti negazionisti, così come, più in generale, dai discorsi sul complotto come chiave d’interpretazione sistematica dell’esistente, non è il risultato di una ignoranza generalizzata bensì del bisogno di dare una sorta di razionalità alternativa, non importa quanto falsa. D’altro canto, se spostiamo l’attenzione ancora una volta sul negazionismo, sussiste una coerenza di fondo: si tratta di negare l’esistenza stessa di coloro che, secondo il regime nazionalsocialista, erano votati all’inesistenza. Non è facile, poste tali premessi, che rasentano la dimensione paranoide della lettura dell’esistente, controbattere alla seduzione del complottismo e di tutto quello che gli ruota intorno. Un solo riscontro, al riguardo. Se il concetto di trasparenza comunicativa (la democrazia è visibilità e, quindi, ogni cosa deve essere vista e risaputa), che regge la nostra società, trova nella narrazione della vicenda della Shoah il suo fondamento, secondo l’equazione per la quale un omicidio può realizzarsi più facilmente attraverso il suo occultamento (cosa per cui vale quindi anche il presupposto inverso), la messa in opera di macchine d’informazione non ha impedito che si verificassero moderni omicidi di massa o genocidi come nel caso della Bosnia, del Rwanda o di altri luoghi.
Non esiste quindi nessun nesso diretto, immediato e, soprattutto, tra informazione e prevenzione, laddove semmai prevale l’ideologia dello spettacolo, ossia del vedere ma del non partecipare, del prevedere ma del non intervenire. E quest’ordine di considerazioni fa sì che il nostro rapporto con il Giorno della Memoria sia partecipe ma anche critico. Non polemico, sia ben chiaro, ma attento alla non linearità di molte delle cose che si presentano dinanzi ai nostri occhi.

(1/segue)

Claudio Vercelli

(25 gennaio 2015)