La guerra prevedibile

sdpNel corso della storia, avvenimenti di portata locale ma di forte impatto su un ampio immaginario collettivo hanno a volte scatenato grandi sconvolgimenti internazionali. Dopo la defenestrazione di Praga nel 1618 scoppiò la guerra dei Trent’anni; dal delitto di Sarajevo nacque la prima guerra mondiale. Si può fare un paragone con gli ultimi atti di terrorismo in Europa? Dopo l’attacco del 24 maggio al museo ebraico di Bruxelles, era prevedibile il massacro di questo gennaio a Parigi alla redazione di Charlie Hebdo e al supermarket Hyper cacher alla Porte de Vincennes? È prospettabile oggi un grande scontro di civiltà come in realtà avvenne nei due casi appena menzionati? E più in particolare, quali sono i ruoli e le prospettive delle comunità ebraiche in questi tempi tempestosi?
L’impressione di chi scrive è che sul piano della grande politica internazionale non ci si possa aspettare troppo. Il mondo è oggi molto cambiato da quando grandi eserciti si affrontavano in battaglie frontali, a volte per minuscole ripicche di successione, ma a volte anche per grandi questioni di principio, fino alla conclusione definitiva del conflitto con un chiaro vincitore e un chiaro sconfitto. In passato per vincere bastava forse disarcionare il re della potenza rivale in campo. Nel 1945 c’è voluta la distruzione nucleare americana di due grandi città giapponesi. Nella costellazione attuale, mancano due cose: la chiara definizione politica e logistica delle forze rivali in campo; e, ammesso che si possa definire chi sono le forze contrapposte, la volontà assoluta di prevalere senza concessioni non solo da parte di un lato, ma anche da parte dell’altro. Il mondo occidentale attuale, con il presidente Obama nel ruolo di titubante primus inter pares, è estremamente diviso sulle grandi decisioni strategiche e soprattutto non è deciso a mettere in gioco tutto per conseguire un obiettivo – la difesa a oltranza dei principi etici e civili della società. I bei principi non hanno un’evidente controparte utilitaristica, per lo meno non secondo un primitivo e approssimativo calcolo di tornaconto immediato. La minaccia ai principi si presenta sotto forma di una grande quantità di movimenti fondamentalisti di ispirazioni diverse e anche contrapposte, frazionate e sfuggenti, contradditorie e difficilmente definibili, ma comunque tutte accomunate da un condiviso riferimento ideale a un’antica matrice islamica – vera o immaginata che sia. Il dissidio fra islamici sunniti e sciiti incanala la maggior parte delle energie verso la lotta all’interno dell’Islam, e come conseguenza la grande maggioranza delle vittime della violenza islamica sono musulmane. Ma nelle varie articolazioni di un Islam certo poliedrico esistono comunque energie sufficienti a nullificare se non a conquistare ciò che non è islamico, sia esso di parte cristiana o di parte ebraica, a occidente o in Medio Oriente, o anche di parte confuciana o buddista, più a oriente e più a sud.
Di fronte a questo molto frammentato e certo non irresistibile attacco da parte di elementi islamisti, siano essi l’espressione di governi legalmente riconosciuti o di frange autonome e ribelli, l’Occidente dimostra più di ogni altra cosa di aborrire un’analisi unitaria e una reazione politica e militare effettivamente coordinata. Nel discorso politico serio e ufficiale in Occidente, a volte con l’eccezione degli Stati Uniti, prevale distintamente il linguaggio politicamente corretto della rimozione, dei distinguo, dell’understatement. L’ultimo attacco a Parigi ha colpito con molta oculatezza tre obiettivi al cuore della società civile europea: la redazione di un giornale satirico, ossia la libertà di opinione; la polizia, ossia lo stato di diritto e di legge; e gli ebrei, ossia la cartina di tornasole della tolleranza. Di queste tre modalità l’opinione pubblica ne ha fatta propria soprattutto una con lo slogan “Je suis Charlie”. Pochi, e quasi tutti ebrei, hanno con maggiore acutezza e coraggio voluto affermare “je suis Charlie, flic, et juif”. Il discorso politico e mediatico si è impegnato soprattutto nel richiamo a non generalizzare e a non incanalare l’interpretazione e la reazione verso un indiscriminato anti-islamismo. In questi ultimi tempi resta beninteso il fatto che non tutto l’Islam è terrorista. Ma tutto il terrorismo è islamico.
Le comunità ebraiche in Europa si trovano ora in un grande dilemma perché buona parte della reazione della politica e dell’opinione pubblica è stata catturata dal dibattito sulla possibile emigrazione degli ebrei europei verso Israele, tema tutto sommato molto marginale nel contesto più generale. All’invito molto convenzionale di Bibi Netanyahu agli ebrei francesi a vedere in Israele la loro patria, è seguito il richiamo opposto (perfino ripreso in Israele dal quotidiano Haaretz) a non muoversi perché la partenza degli ebrei segnerebbe un duro colpo al concetto e al destino dell’Europa. Io non credo che una sola persona prenderà la propria decisione se restare nel paese europeo di residenza o se cambiare paese, e in questo caso se trasferirsi in Israele, solo perché qualcuno, e sia pure il primo ministro, gli ha detto di farlo o di non farlo. Le persone sono abbastanza intelligenti e autonome per prendere le loro decisioni in base a valutazioni più complesse e non solamente dettate dall’emozione del momento. D’altra parte la pretesa di dire all’ebreo di fare o di non fare una certa cosa fa ancora parte di una mentalità paternalistica o perfino proprietaria. Ci si dimentica a volte che con l’indipendenza di Israele, anche gli ebrei come i francesi e gli italiani, hanno acquisito il diritto alla sovranità, ossia la facoltà di essere attori autonomi della propria storia, nel bene e nel male. Gli ebrei, come individui e come collettivo, non appartengono a nessun altro se non a se stessi.
L’entità e il calendario delle migrazioni, anche quelle verso Israele, seguono soprattutto motivazioni economiche e se del caso politiche, e solo in secondo luogo motivazioni ideologiche. Quest’ultime determinano soprattutto la scelta del paese di destinazione – Israele o altro. Il fatto certo è l’aumento molto notevole dell’aliyah nel 2014 – oltre 6500 arrivi dalla Francia, primato di tutti i tempi per questo paese; e 323 dall’Italia, secondo risultato di sempre dal 1950 dopo il primato di 330 nel 1970 dopo-guerra dei Sei Giorni. La maggiore aliyah riflette il malessere di molte comunità ebraiche europee che dura da anni e si acuisce costantemente. I persistenti problemi di molte economie si sommano alla percezione di un crescente razzismo e antisemitismo nella società. Secondo l’indagine sponsorizzata dalla Fundamental Rights Agency in nove paesi dell’Unione Europea, fra cui l’Italia, già nel 2012 il 52% degli ebrei francesi e il 41% dei belgi contemplavano la possibilità di emigrare. In Italia questa ipotesi interessava il 22% della comunità. Oggi dopo la strage di Parigi, queste cifre sono certamente superiori, con o senza il richiamo di Bibi. Secondo la stessa indagine, il 68% degli ebrei in Italia, Germania e Regno Unito e l’89% in Francia e in Belgio percepivano un incremento nei livelli di antisemitismo nei cinque anni precedenti, assieme a un aumento del razzismo in generale nei rispettivi paesi. Quasi 30% degli ebrei italiani dichiaravano di aver subito molestie antisemite negli ultimi 12 mesi, livello molto simile a quello degli ebrei francesi e belgi. Il 20% riportava l’impressione di essere stato discriminato a causa della propria appartenenza religiosa, il 4% aveva subito atti di vandalismo, il 2% atti di aggressione fisica. Se quest’ultima cifra sembrerà a qualcuno “insufficiente”, è in realtà rilevante perché significa una persona su 50. In Francia e in Belgio il livello era quattro volte superiore. L’antisemitismo infesta in primo luogo le reti virtuali dove per il 61% degli ebrei italiani il problema è grave; per il 24% il problema è grave nei mezzi di comunicazione e stampa, ed è serio per un altro 36%, e in aumento dappertutto. E finalmente l’origine dell’antisemitismo, spesso attraverso la mediazione dell’attacco a Israele, è percepita in primo luogo a sinistra seguita a breve distanza dalla destra. Qui torniamo alla visione più generale dei fatti, delle loro cause e conseguenze. Il discorso pubblico non riesce o non vuole chiarire gli equivoci. Il pubblico ebraico ne risente.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme – Pagine Ebraiche febbraio 2015

(25 gennaio 2015)