Periscopio – Memoria
Non c’è dubbio che questa edizione del Giorno della Memoria cada in uno dei momenti più oscuri e preoccupanti, a livello internazionale, sul piano della difesa dei diritti civili e dei valori di libertà, civiltà e umanità, non solo da quando, quindici anni fa, il Parlamento italiano volle istituzionalizzare le celebrazioni per tale ricorrenza, ma anche dell’intero secondo dopoguerra.
È difficile ricordare un altro periodo storico, negli ultimi 70 anni, in cui l’antisemitismo è sembrato tornare alla ribalta con tanta virulenza, in tanti diversi contesti, e in cui i principi della democrazia, della pace, della civile convivenza e del rispetto della vita umana vengano irrisi e vilipesi con tanta forza e determinazione, fuori e dentro dai confini della vecchia Europa.
Molti ebrei lasciano l’Europa, che è tornata a incutere paura, e un recente sondaggio rivela che molti altri si preparano a farlo, o ci stanno pensando. E quale sarebbe l’esito di un ipotetico sondaggio mondiale, in cui si chiedesse a tutti gli abitanti del pianeta cosa sia stata la Shoah, e quale giudizio se ne possa dare? Un sondaggio che coinvolgesse i cittadini di Francia e Qatar, Ungheria e Iran, Niger, Turchia, Siria, Indonesia? Vengono i brividi solo a pensarlo.
In Italia, certo, la grande maggioranza delle riposte sarebbe improntata a sentimenti di sincera solidarietà per le vittime e ferma esecrazione per i carnefici. E anche quest’anno, come tutti gli anni precedenti, sto avendo il privilegio di toccare con mano la sensibilità, la voglia di capire, il turbamento di tanti dei nostri ragazzi, e il generoso impegno civile di tanti colleghi, educatori, artisti ed esponenti delle istituzioni, tutti impegnati, in vario modo e su vari fronti – al di là di qualche immancabile voce stonata -, a distillare, dalla memoria dell’orrore, una lezione di vita, un monito per il futuro, un messaggio di impegno e speranza.
Non vanno sottovalutati, ovviamente, tutti i rischi connessi a tale celebrazione, che hanno indotto autorevoli voci a interrogarsi sulla sua perdurante utilità, a riflettere su quello che è stato giustamente chiamato “Il paradosso della memoria”. E va sempre tenuto ben fermo l’insegnamento di Primo Levi ed Elie Wiesel, uniti, pur nella diversa sensibilità e percezione, nel ricordare l’impossibilità di rendere il senso di un’esperienza per definizione incomunicabile e intrasmissibile. Ma temo che le famose parole di Primo Levi: “È accaduto, quindi può accadere di nuovo”, suonino oggi meno ‘scandalose’ di quarant’anni fa, quando ci si illudeva che la serpe antisemita fosse stata debellata per sempre. Oggi ha rialzato il capo, e la sua nera presenza si impone al nostro sguardo.
In tale contesto, il problema di fondo che si pone, a mio avviso, è quello di conciliare quella che appare una doppia funzione della memoria, difficilmente sintetizzabile in un unico percorso: da una parte il ricordo, la compassione, il lutto, dall’altra la reazione, l’insegnamento civile, la costruzione del futuro.
Che cos’è la memoria, a cosa serve, come deve essere intesa? È un tributo postumo alle vittime della barbarie, un desiderio di sentirsi a loro vicini, almeno a livello simbolico e di coscienza? O è piuttosto un atto pedagogico, il tentativo di una grande lezione collettiva sulle possibilità e i pericoli dell’essere uomini?
È evidente che nessuna delle due funzioni può essere cancellata: non si può ricordare un crimine del passato mostrandosi indifferenti di fronte ai progetti di chi vorrebbe reiterarlo al presente – magari non nelle stesse proporzioni e negli stessi modi, ma, forse, con gli stessi sentimenti, a volte le stesse, identiche parole. Ma non si può neanche strumentalizzare il dolore di chi non c’è più per utilizzarlo in chiave didattica. Siamo proprio sicuri che le vittime sarebbero d’accordo?
Non esiste un’unica strada, ed è bene che sia così.
Mi piacerebbe solo che, tra tante parole, belle e meno belle, le manifestazioni per il Giorno della Memoria riservassero sempre un piccolo spazio anche al silenzio. A quella ‘non parola’ che può farci accostare, con pudore, a ciò che è stato, e che non può essere raccontato, né dimenticato.
Francesco Lucrezi, storico
(28 gennaio 2015)