J-Ciak – Le voci negate dei soldati

amos oz filmAncora soldati. Mentre “American Sniper”, storia vera di un cecchino in Iraq, si avvia a diventare il film di guerra più visto negli Stati Uniti, da Israele arrivano in presa diretta le voci di chi ha combattuto. A restituircele, per la prima volta in tutta la loro crudezza, è “Censored voices” (84’, Israele/Germania) di Mor Loushy. Il documentario propone le interviste a un gruppo di giovani kibbutznik reduci dalla Guerra dei Sei Giorni realizzate – una settimana dopo la fine del conflitto – dallo scrittore Amos Oz e Avraham Shapira. Finora nessuno aveva potuto ascoltarle per intero perché l’Esercito aveva censurato le registrazioni, consentendo la pubblicazione di soli alcuni frammenti.
Presentato in anteprima mondiale al Sundance Festival, dove ha fatto già ha fatto parlare di sé, pur senza aggiudicarsi particolari riconoscimenti, il documentario sbarca ora alla Berlinale.
“Censored Voices” assembla le voci dei soldati a materiali, spesso inediti, da trenta archivi nel mondo dando vita a un racconto spesso straziante. A collegarlo all’oggi, solo i volti dei militari di allora che, cinquant’anni dopo, ascoltano le loro parole di ragazzi con emozioni che è difficile immaginare.
Il film nasce quasi per caso. “Fin da bambina – spiega la regista Mor Loushy – mi era stato raccontato che dopo la Guerra dei Sei Giorni l’intero Paese aveva festeggiato la sua storica vittoria. Anche se la mia era una famiglia di sinistra, ero convinta che le voci contro l’occupazione fossero iniziate solo a a metà degli anni Settanta”. “Studiando storia all’università – continua – scoprii però che delle conversazioni svoltesi appena una settimana dopo la guerra erano state censurate dall’Israel Defence Force e dalle autorità preposte. Scoprii che vi era stata un’altra voce, una voce diversa che era stata negata. Fu come un pugno allo stomaco. Perché non ne sapevo nulla? Com’era potuto rimanere nascosta?”.
Loushy prosegue nella sua ricerca e arriva ad Avraham Shapira. Non è la prima a chiedergli le registrazioni e anche questa volta lui – che dai frammenti approvati dalla censura nel ’71 aveva tratto un libro, “The Seventh Day: Soldiers’ Talk about the Six-Day War”– rifiuta di metterle a disposizione. L’insistenza della giovane regista ha però la meglio, Shapira si convince a prendere parte al progetto e le voci, incise da Oz e Shapira su un vecchio registratore a bobine, girando di kibbutz in kibbutz, tornano alla luce.
I soldati che l’hanno vissuta sulla propria pelle fino a pochi prima raccontano la Guerra dei Sei Giorni al di là di ogni retorica. Sanno che l’avanzata araba mette in pericolo la stessa vita d’Israele, sanno che combattono per la loro stessa sopravvivenza e per quella dei loro cari.
“C’era la sensazione che poteva diventare un altro Olocausto”, dice uno di loro. “Questa è stata la mia prima guerra – dice un altro – Ho pensato che dovevo raccontare la mia paura: perché la mia guerra è stata questo, in realtà”. C’è chi ricorda le esecuzioni sommarie e chi racconta la paura dei soldati egiziani catturati.
Qualcuno descrive le famiglie arabe che evacuano Gerico trasportando le loro cose proprio com’era toccato ai suoi in fuga dalla persecuzione nazista. Altri, entrando nella Città vecchia di Gerusalemme, sono turbati dalla sensazione di aver combattuto dei civili più che un altro esercito. “Ero convinto che la guerra era giusta. Riguardava la nostra esistenza – dice un giovane soldato – poi diventò qualcosa d’altro”.
Il lavoro di Mor Loushy non dà risposte, semmai solleva un mare di domande. “Censored Voices” parla della Guerra dei Sei Giorni ma affonda lo sguardo nell’atrocità di tutte le guerre. “La fine del film è molto triste – dice la regista – perché mette in luce quel tratto che ci induce a combattere, a peccare, a comportarci in modo bestiale. Vorrei però che accendesse anche una scintilla di ottimismo sull’ascoltare sempre la voce dell’altro. Non dobbiamo mai aver paura di guardare all’essere umano, con tutti i suoi difetti e le possibilità di correggerli”. Se ascoltata, dice, la voce diversa dei soldati israeliani, quella voce finora messa a tacere “avrebbe potuto cambiare il posto in cui vivo, facendone un posto migliore per il figlio che sto crescendo, [era] una voce che avrebbe potuto porre fine all’occupazione prima ancora che iniziasse”.

Daniela Gross

(6 febbriao 2015)