Raffigurazioni mutevoli / 2

vercelliParallelamente a ciò che già abbiamo raccontato, altri eventi iniziarono ad occupare la scena degli anni Sessanta, esprimendo una significatività che eccedeva la stessa sfera politica, all’interno della quale comunque essi si generano, per riversarsi ben presto sul comune sentire, ossia sull’opinione pubblica.
È il caso della cosiddetta ‘rivoluzione culturale’ che, a partire dalle università, si estese ai costumi e agli atteggiamenti di tutte le società occidentali. Ne parla diffusamente Peter Novick, nel suo argomentato «The Holocaust in American Life», laddove mette sagacemente in rilievo il ribaltamento di paradigma culturale che si verificò in quel tornante di tempo all’interno del discorso pubblico e, in immediato riflesso, anche in quello storiografico.
Qualcosa di destinato a lasciare un segno tangibile, una sensibilità che arriva fino a noi. Nella determinazione delle identità collettive, nazionali e sociali, si transitò infatti dall’egemonia delle figure del vincitore e dell’eroe per approdare, attraverso successivi passaggi, alla centralità dell’archetipo della vittima. Si trattò di un passaggio epocale, un mutamento i cui effetti perdurano a tutt’oggi.
Lo sviluppo del movimento per i diritti civili, gli esiti della guerra in Corea prima e la guerra in Vietnam con i suoi effetti di lungo periodo successivamente, come più in generale i mutamenti socioeconomici del complesso melting pot statunitense, furono infatti all’origine di questo cambiamento, il quale si riflesse, consolidandosi da sé, nel corso del tempo, sulle culture comunitarie di tutto l’Occidente, per giungere fino ai giorni nostri. Se fino alla metà degli anni Sessanta era il concetto stesso di ‘integrazione’ in una comune appartenenza a presupporre un egualitarismo fondato sul superamento delle differenze comunitarie, tanto più se fondate sulla base di un percorso di mera vittimizzazione, ora la cittadinanza veniva riformulata sulla scorta di una nuova individualizzazione, la quale presupponeva due componenti tra di loro intrecciate: l’affiliazione ad un gruppo etnico e culturale, capace di radicarsi all’interno dei processi politici collettivi secondo un’ottica rivendicativa (il comunitarismo), e l’autorappresentazione in termini di vittima, ovverosia di soggetto portatore di diritti, ascritti al gruppo ma non necessariamente societari, ovvero estendibili a tutti.
Come tali, va aggiunto, identificabili nel momento della loro lesione e non altrimenti. Una parte cospicua del movimento per i diritti civili, ad esempio, acquisisce e fa proprio questo imprinting, anche se nel corso del tempo, conoscendo una significativa torsione che, in alcune componenti, lo porta a transitare da istanze universaliste e piattaforme particolariste.
È comunque impossibile dare conto in queste poche righe della complessità e della stratificazione dei percorsi che hanno portato a tali esiti. Il ricorso alla Shoah o, per meglio dire, all’Olocausto, inteso come narrazione del proprio sé collettivo nei termini di un complesso identitario rigorosamente strutturato sul ricordo del dolore di cui si è stati destinatari – e di cui ci si è reputati depositari – diventa una risorsa strategica per le comunità ebraiche statunitensi, così come per lo stesso Israele, nel momento in cui le une e l’altro devono fare fronte alle stringenti esigenze della politica, accedendo all’arena dei beni pubblici e capitalizzando il proprio ruolo in quanto soggetti della contrattazione collettiva in un contesto fondato sulla competizione delle memorie.
Le dinamiche innescate dai processi di decolonizzazione, ad esempio, sono un altro fattore che incentiva tale traiettoria. Laddove le stesse società che hanno conosciuto l’emancipazione e l’indipendenza da poco, basano le proprie politiche su richieste e istanze, rivolte contro l’Occidente ‘imperialista’, di natura compensativa e risarcitoria.
Il sistema della comunicazione ha recepito e riprodotto questo percorso, il cui esito politico più significativo è il ritorno dell’identitarismo, che rappresenta una filosofia dei rapporti umani fondata sulla separazione tra comunità dai tratti nettamente delineati, oggi diffusa in una paese come gli Stati Uniti, affaticato nel fare fronte a politiche pubbliche di redistribuzione delle risorse fondate su criteri di equità sociale e quindi obbligato ad interagire con i frammenti di un puzzle sempre più complesso, articolato e segmentato di interlocutori. Così, nella storia collettiva si integra e interagisce potentemente la memoria comunitaria, quasi che questa potesse fungere da collante tra storie invece diverse.
Il serial televisivo «Holocaust» del 1978 sancisce la costituenda egemonia nel discorso pubblico di una rappresentazione della Shoah, e quindi della condizione ebraica, essenzialmente come identità di afflizione. Oggetto di ripetute polemiche e di autorevoli e motivati anatemi – primo tra tutti quello di Elie Wiesel – esso tuttavia capitalizza il dolore privato delle vittime della deportazione, trasponendolo sul piano di una fiction costruita per incontrare la sensibilità del grande pubblico americano. A modo suo costituisce un rilevante esempio di quella televisione dell’intimità che negli anni successivi prenderà piede in tutto l’Occidente. In essa, alla resa spettacolare del dolore, che non viene più nascosto ma diventa semmai oggetto di attenzione collettiva, a tratti quasi ossessiva, si coniuga una potente privatizzazione dei sentimenti. Una miscela, quest’ultima, che se da un lato porta alla ribalta pubblica lo sterminio (di riflesso, non solo quello subito dall’ebraismo europeo) e la necessità di ragionare sulle pratiche di genocidio come ad uno degli aspetti della modernità, si accompagna, tuttavia, una società incapace di elaborare collettivamente i problemi legati alle angosce collettive che l’attanagliano.
Luc Boltanski, ne «Lo spettacolo del dolore», fornisce in quadro interessante, al riguardo, ricostruendo criticamente le dinamiche che agitano la coscienza delle società contemporanee, divise tra sforzo di comprensione e incapacità di azione. Qualcosa che ci porta all’oggi, dinanzi all’inermità e alla vulnerabilità che registriamo confrontandoci con un fenomeno pervasivo qual è il radicalismo islamista e jihadista.
Così, un poco alla volta, il cerchio si chiude, mettendo in rapporto cose e tempi tra di loro anche molto diversi. A conclusione di queste scarne riflessioni, vale la pena richiamare quanto già scriveva Richard Marienstras nel 1997 in «Diasporiques», riguardo ad Adam Czerniakow, il presidente suicida dello Judenrat del ghetto di Varsavia, i cui diari paiono essere un po’ lo specchio della vicenda sterminazionista nell’accezione che intendiamo conferire ad essa: c’è in essi, afferma lo studioso, una «strana modernità» che deriva «dal fatto che gli sforzi falliti, che egli evoca, si accordano necessariamente e misteriosamente con il nostro mondo privo di finalità, nel quale nulla può riuscire poiché non ci sono scopi da raggiungere. Tutto si conclude in uno scacco, anche quando, illudendoci, crediamo di aver raggiunto la meta di uno sforzo, di un viaggio o di un’impresa».

(2/fine)

Claudio Vercelli

(22 marzo 2015)