Time out – Aliyah
Che sia sui social network o sui giornali non c’è occasione in cui non si ascolti qualcuno criticare la scelta di molti ebrei di emigrare in Israele per ragioni economiche e politiche. Urlano i defensor fidei del sionismo duro e puro (che neanche conoscono) che l’aliyah si fa esclusivamente per ragioni ideologiche. Si indignano se il premier israeliano invita gli ebrei europei a tornare a casa dopo gli attentanti perché neanche l’antisemitismo è una ragione valida ritornare in Israele. Insomma, in Israele si sale solo per valori, come se uno in difficoltà economiche o stremato dall’antisemitismo che cresce scegliesse Israele con la stessa logica con cui sceglierebbe di andare a vivere in Germania o in Nicaragua. Eppure studiare un po’ la storia del sionismo non sarebbe male; si scoprirebbe che tra le ragioni della nascita dell’ideologia sionista c’è stato proprio l’antisemitismo, con la convinzione che l’unico modo per gli ebrei di vivere come cittadini liberi ed eguali fosse in uno Stato proprio. Chi se ne andò per l’antisemitismo si salvò, chi rimase finì nella camere a gas. Domani sera festeggeremo Pesach, il racconto, potremmo dire, della prima tappa del sionismo della storia. Il ritorno a casa del popolo ebraico che schiavo e odiato dagli egiziani con l’aiuto di D-o sceglie di tornare in Israele. Banalizzando definiremmo queste come ragioni economiche e politiche, senza però considerare questo percorso meno nobile, anzi l’uscita dall’Egitto rappresenta per l’ebraismo il ritorno a casa per eccellenza. A questo dovremmo pensare domani sera: se non valga la pena di rendere l’affermazione “l’anno prossimo a Gerusalemme” piuttosto che una semplice proclamazione d’intenti, come una scelta concreta che non ci renda come quegli ebrei che con la prospettiva di tornare in Israele scelsero lo stesso di rimanere schiavi in Egitto. Non sia mai che stiamo facendo la stessa cosa.
Daniel Funaro
(2 aprile 2015)