Qui Roma – Il ritorno alla vita

Schermata 04-2457129 alle 13.15.08Ritornare alla vita dopo la Shoah, riacquistare lentamente la libertà, trasmettere il ricordo, educare alla Memoria: questa la sfida che si propone il convegno “Dalla deportazione al ritorno. Famiglia, vita, società dopo la Shoah” che si è aperto stamattina al Centro Ebraico il Pitigliani di Roma e che ha visto gli interventi di Dan Haezrachy, vice Capo missione dell’Ambasciata d’Israele a Roma; Piero Terracina, testimone della Shoah; Elisa Guida dell’Università della Tuscia; Simonetta Della Seta, giornalista, scrittrice ed ex addetto culturale dell’ambasciata italiana in Israele; Yiftach Askhenazy dello Yad Vashem; Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale e del Museo della Shoah di Roma; Laura Camis de Fonseca (fondazione Camis de Fonseca); Rosa Venuti dell’Irase (Istituto per la ricerca accademica, sociale ed educativa), Massimo Di Menna e Noemi Ranieri di Uil scuola e con due scuole protagoniste e ospiti d’onore: l’Istituto di Istruzione Superiore “Luca Paciolo” di Bracciano e Anguillara e l’Istituto di Istruzione Superiore “Gabriele D’Annunzio” di Gorizia. A moderare gli interventi Sira Fatucci, Coordinatore Memoria della Shoah per l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
“Oggi in Israele è Yom HaShoah e l’intero paese – spiega Haezrachy – si paralizza per la strada e commemora le vittime della persecuzione nazista e di chi si è sacrificato per salvarle. Un gesto drammatico eppure volto con speranza al futuro. Dobbiamo continuare a lavorare ed educare alla Memoria. Penso a quanto sia terribile che le nuove generazioni si sentano annoiate mentre ricordano e proprio per questo dobbiamo interrogarci continuamente su come trasmettere la Shoah. La distruzione perpetrata dall’Isis o dalla minaccia nucleare iraniana sono un monito per battersi a non arrivare mai più alla situazione nella quale si trovarono i nostri nonni. Elie Wiesel dice: ‘Per i morti e per i vivi dobbiamo continuare la testimonianza’”. Giovanni Maria Flick continua: “Ricordare deve essere un’azione portata avanti soprattutto da chi non è ebreo. Il problema dell’oblio ha sempre sfidato la Memoria: prima del processo a Eichmann nessuno parlava: gli anni ’60 hanno mostrato sì la banalità del male, ma anche la sua immanenza. Primo Levi parlava di bisogno di silenzio dopo Auschwitz ma questo non significa oblio, Vittorio Foa poi si interrogava sul perché bisogna e cosa significa ricordare, queste sono infatti le domande che ci dobbiamo porre costantemente per contrastare memorie false o rituali o svuotate dal loro significato. Ricordare significa restituire dignità alla vita umana, dare volti e nomi. A volte si fanno dibattiti inutili di fronte alla sofferenza come la definizione della strage o genocidio armeno, mettendo in secondo piano il dolore in sé. La Memoria deve coinvolgere e rimanere nel cuore e il negazionismo non è che una negazione del diritto alla Memoria”.
A raccontare il proprio ritorno a casa è Piero Terracina sopravvissuto ad Auschwitz Birkenau: “Ogni volta che mi chiedono come sia stata la Liberazione, rispondo: hai presente la Tregua di Primo Levi? La mia tregua è stata ancora più lunga e avventurosa. Credevo di morire in ogni istante. Gli ultimi giorni la mattina faceva così freddo che la coperta diventava un pezzo di ghiaccio, all’ultima visita medica pesavo 38 chili ed ero uno dei più robusti. Avevo perso cognizione di me stesso anche da uomo libero; in ospedale tenevo un panetto di burro nascosto sotto al letto anche se avevamo cibo a disposizione. Il ritorno alla vita è stato lento e difficile ma mi ha permesso di trovare amicizie e l’unico vero amore”.
Elisa Guida prosegue: “Quando abbiamo una fonte che testimonia la liberazione dobbiamo andare oltre, confrontarlo con altre fonti, farle dialogare. La libertà e la Liberazione dopo Auschwitz non coincidono più. Chi uscì dai campi in molti casi fu abbandonato dal paese d’origine, si sentì solo: basti pensare che l’Italia non considerava i suoi cittadini ebrei dei reduci”. Simonetta Della Seta descrive poi il punto di vista israeliano: “Questo è il primo Yom Hashoah che passo fuori da Israele e sono felice di condividerlo con voi. Il ritorno degli ebrei nell’allora Palestina avvenne molto prima, come spesso si crede, e Enzo Sereni e sua moglie Ada, tra i primi pionieri italiani, ne sono una dimostrazione. Per gli ebrei italiani fu complicato ambientarsi a quella nuova terra: alcuni scelsero i kibbutz socialisti, altri la città urbana di Tel Aviv e nel 1948 erano quasi 2000, un numero che sembra esiguo ma è importante per l’epoca”. Yiftach Askhenazy interviene poi su un argomento particolarmente doloroso: la storia dei bambini nei Lager e durante la Liberazione: “I bambini, spesso piccolissimi, erano completamente soli. Dopo la Liberazione erano orfani, non avevano niente e nessuno. Bisognava intervenire in maniera radicale, spiegarli cosa significava vivere, molti non sapevano nemmeno cosa fosse un fiore. Per creare la loro identità venivano fatte loro delle foto e a scuola era importante chiamarli sempre per nome, farli riconoscere. Ai bambini lo Yad Vashem ha dedicato un mostra molto grande che aiuta a comprendere meglio”.
A concludere i lavori la ricerca della Fondazione Camis de Fonseca che indaga la maschera del nuovo antisemitismo celato dietro l’antisionismo e che usa gli stessi strumenti di propaganda.
Rosa Venuti dell’Irase interviene sull’educazione alla Memoria: “Bisogna far comprendere ai ragazzi l’utilizzo delle fonti. I progetti della Memoria per le scuole hanno la finalità di educare e creare una cittadinanza attiva. Devono essere attività curriculari”, le fa eco Massimo Di Mena: “Affrontare il tema della Shoah a scuola cambia i ragazzi e di conseguenza il paese”.

rs

(16 aprile 2015)