Qui Roma – Seguire le leggi, capire la Storia

Schermata 04-2457132 alle 15.17.34“Come si relaziona l’ebraismo con il potere?”. Questa la domanda fondamentale della giornata di studio in svolgimento al centro ebraico Il Pitigliani sul Dina de-malkhutah dina, la norma da cui deriva l’obbligo, a determinate condizioni, di rispettare le leggi dello Stato o del regno in cui si vive. A moderare la prima sessione, che ha visto gli interventi del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, dello storico sociale delle idee David Bidussa e del professor David Meghnagi, è stato il consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Anselmo Calò. La seconda parte del convegno vedrà invece le riflessioni di Giorgio Gomel, Diana Pinto, Saul Meghnagi e Daniele Fiorentino, moderati da Micaela Procaccia.
“L’idea – spiega Calò – nasce da un libro ripubblicato di recente, ‘Servitori di re e di non servitori di servitori’ (ed. la Giuntina) dello storico Yosef Hayim Yerushalmi, in cui si indaga su questo rapporto”. A introdurre il concetto evocato nel titolo del convegno è quindi rav Di Segni: “Questo – afferma – è un argomento molto interessante, che richiede di essere chiarito a partire dai suoi fondamenti. Spesso i nemici del popolo ebraico hanno usato come arma il fatto che gli ebrei osservassero delle leggi proprie; in particolare nel capitolo terzo della Meghillah di Ester, Aman cerca di persuadere re Assuero a perseguitare il nostro popolo spiegandogli che gli ebrei non rispettavano le regole della Persia. In realtà la Mishnà e il Talmud dimostrano altro: quando si tratta dei divorzi, si spiega come essi vengano regolamentati dalle norme ebraiche ma come i contratti riguardanti i possedimenti terrieri debbano invece seguire quelle del paese nel quale si dimora”.
“Le riflessioni si ampliano anche nel momento in cui si costituisce il Regno di Israele: il profeta Samuele spiega per esempio per quale motivo non vuole che la forma di governo fosse la monarchia. La contraddizione nel rispettare il Dina de-malkhutah dina sopraggiunge quando lo Stato o il re approfittano del proprio ruolo per richiedere più del dovuto o abusano del loro potere: un esempio drammatico riguarda i beni confiscati agli ebrei con le leggi razziste”.
A tornare sugli studi di Yerushalmi è David Bidussa: “Lo storico – dice – fu allievo del grande Salo Wittmayer Baron, che approfondisce la tematica dell’esilio ebraico in Spagna e dello strano ruolo degli ebrei che fecero da cuscinetto da cristiani e musulmani. Ma mentre Baron si interroga sul potere, Yerushalmi si interroga sul pensiero degli ebrei riguardo a questo stesso potere, sulla loro esperienza. Dopo la strage di Lisbona nel 1506 la domanda che ci si pone è: ma perché nonostante la persecuzione gli ebrei continuano a fidarsi di quello stesso potere? Perché non imparano dal passato? Quali sono gli elementi che gli ebrei non colgono? C’è poi un altro punto particolare a cui invece fa riflettere Hannah Arendt nel suo ‘Le origini del totalitarismo’: nel passaggio tra Settecento e Novecento gli ebrei non colgono il cambiamento storico. Essi hanno sempre avuto rapporto con i regnanti e non con i sudditi, mentre dopo la Rivoluzione francese si passa dal rapporto tra gruppi a quello tra individui. Il regnante perde la sua morsa e con questo anche i privilegi che gli ebrei avevano pagato a caro prezzo”.
In conclusione di sessione David Meghnagi si concentra sul rapporto tra ebrei e musulmani nel corso dei secoli. “La questione – spiega – deve essere vista su piano politico e non sociale, come si fa molto spesso. Vorrei inoltre smitizzare il cosiddetto periodo d’oro degli ebrei nella Spagna moresca: indagando a fondo si scoprirà che i rapporti non erano così idilliaci né le condizioni ottimali. La verità è che gli ebrei hanno dovuto sempre elaborare strategie di sopravvivenza attraverso un rapporto con il potere centrale”. Persino la famiglia del grande Maimonide, continua Meghnagi, dovette per un periodo fingere di non praticare la religione ebraica. “E se per un lasso di tempo i territori governati dagli arabi ospitavano con una certa tolleranza gli ebrei (come per esempio attraverso il patto di Omar, che però obbligava a riconoscere la propria inferiorità sul piano morale per non praticare l’Islam), in una seconda fase la situazione divenne molto più tesa. Possiamo riassumere spiegando che ogni volta che la storia subisce un grande cambiamento e si trova in un periodo di transizione, la situazione degli ebrei si fa più precaria. Noi siamo prigionieri di un antisemitismo che si acuisce nei momenti di lacerazione storica”.

Rachel Silvera

(19 aprile 2015)