25 Aprile – Italia, ebraismo e Resistenza

Cuktura 28 29 A settanta anni dalla Liberazione, tre libri affrontano il tema dell’Italia, l’ebraismo e la Resistenza. La storica Anna Foa presenta in anteprima L’eclisse dell’antifascismo di Manuela Consonni. Viene poi ristampato il fortunato La Resistenza spiegata a mia figlia di Alberto Cavaglion che nella sua prefazione stende un bilancio dieci anni dopo la prima edizione. È infine Miriam Rebhun a farci viaggiare con la Brigata ebraica da Haifa a Napoli nel suo nuovo libro Due della Brigata.

La rimozione di un passato scomodo

leclisse-dellantifascismo piccola È un libro, questo di Manuela Consonni, che farà probabilmente discutere. Perché tocca temi tuttora scottanti del nostro dibattito storiografico e politico, e lo fa senza aderire a nessuno degli schieramenti esistenti. L’autrice, storica dell’Università di Gerusalemme, propone un’interpretazione originale del modo con cui il nostro Paese ha costruito, fin dalla liberazione, il paradigma interpretativo della sua storia, quello antifascista. Un paradigma che, pur senza mai essere completamente rigettato e nemmeno rimesso formalmente in discussione dalla politica, si è trasformato in un paradigma essenzialmente culturale.
A sostegno della sua tesi, Consonni analizza minuziosamente la memorialistica resistenziale e della deportazione, sottolineando il ruolo della memoria e della questione ebraica nella costruzione di quella che potremmo chiamare “l’ideologia della Repubblica”. Per Consonni, fin dai primi anni, i partiti della Repubblica hanno preferito non fare un serio bilancio del passato, rimuovendo le responsabilità del fascismo e del regime di Salò, e affrettandosi a gettare esclusivamente sui nazisti le colpe di quanto era accaduto. Con l’amnistia varata da Togliatti allo scopo di promuovere l’inserimento del Partito comunista nell’area della politica di governo, si posero tutte le premesse per la debolezza politica del paradigma antifascista, presto ridotto a pura retorica celebrativa e relegato nella sfera della cultura. La memorialistica ha sostanziato l’antifascismo culturale, il ricordo dei campi nazisti ha portato il mondo ebraico a partecipare dell’etica resistenziale, mentre sul piano politico la Guerra Fredda ha reso l’antifascismo sempre più un fenomeno di opposizione, appartenente esclusivamente alla sinistra.
Con cambiamenti e cesure, naturalmente. La nuova resistenza dei ragazzi degli anni Sessanta lo ha riportato in auge, insieme a quelle che apparivano come aperture del centro-sinistra, mentre successivamente il richiamo strumentale delle Brigate Rosse alla Resistenza ha posto le basi per il suo declino. Nel frattempo, la memorialistica ha ricostruito la questione ebraica isolandola rispetto alla Resistenza, e rompendo quel legame strettissimo tra ebrei e sinistre, tra ebrei e lotta contro il nazifascismo, che aveva caratterizzato i primi decenni dopo la liberazione.
La Shoah, così come si è andata costruendo a livello memoriale dagli anni Settanta in poi, nella sua unicità e nella sua separazione dalla Resistenza, alienata — potremmo dire — dalla storia e dalla percezione degli ebrei italiani, ha contribuito forse anch’essa, in qualche misura, all’eclisse dell’antifascismo, o perlomeno alla sua monumentalizzazione. E anche la storiografia, fino ai primi anni Settanta ancora intenta a ricostruire il fascismo e la Resistenza all’interno di questo paradigma, ha cominciato a fornire interpretazioni diverse.
Manuela Consonni costruisce la sua argomentazione sul nesso tra la duplice elaborazione memoriale — quella della Resistenza e quella della deportazione ebraica — e la cultura politica italiana. Questo nesso fa emergere anche la singolarità del percorso italiano, naturalmente ancorata nella storia del nostro Paese, nel ventennio fascista, nell’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista, nel complesso rapporto tra la liberazione ad opera degli angloamericani e la Resistenza armata. Ma tale singolarità emerge anche nel tipo di bilancio storico e memoriale che in Italia viene fatto del periodo fascista e del periodo della deportazione, non solo degli ebrei, evidentemente, ma anche dei politici e dei militari (come quella assai meno nota dei carabinieri).
Le ragioni del declino, dell’eclisse di questo paradigma fondante sono, come sempre accade, innumerevoli: il contesto internazionale, con la fine della Guerra Fredda e poi la caduta del comunismo, ne rappresenta probabilmente la ragione primaria, forse anche perché il paradigma antifascista ha rappresentato per molto tempo un fattore di impedimento, per la sinistra italiana non comunista, nel denunciare i misfatti del cosiddetto “comunismo reale”. Come ci si poteva schierare contro l’Unione Sovietica, che a Stalingrado aveva salvato il mondo dalla barbarie nazista, che aveva liberato Auschwitz? Rinunciando al comunismo non si finiva forse per approdare nelle braccia del fascismo? La strumentalizzazione del paradigma antifascista lo ha però svuotato del suo significato: rendendolo retorico e condivisibile da chiunque — sostiene Consonni —, ne ha determinato le debolezze e poi la caduta. Certo, c’erano in gioco esigenze anche importanti della politica, per esempio quella di fingere un’Italia tutta antifascista per potersi sedere al tavolo dei vincitori anziché a quello dei vinti. Ma c’erano anche, purtroppo, la continuità della macchina statale fascista, del potere giudiziario, la difficoltà di riparare alla vergogna delle leggi razziste, la strumentalità stessa con cui si sono usati gli ebrei e la questione ebraica, come dimostrano le lucide e premonitrici pagine di Otto ebrei di Giacomo Debenedetti, qui analizzate con particolare finezza.
Il rifiuto degli ebrei di separarsi, inizialmente, dalla Resistenza, la loro esigenza di presentarsi come italiani e combattenti ha una ragione di più in questa strumentalizzazione da parte di chi, dopo aver dato la caccia agli ebrei, era pronto ad usarli per sbiancarsi le mani. Il libro di Manuela Consonni pone questi e molti altri problemi, lascia spazio al dibattito sulle questioni irrisolte, ne apre molte che pensavamo chiuse, invita ad affrontarle dal punto di vista storico e politico. A patto di non dimenticare ancora una volta che la rimozione e la cancellazione del passato sono tra le tendenze italiane più diffuse, quasi una sorta di caratteristica nazionale.
D’altronde le svolte, nel nostro Paese, comportano sempre la rimozione, come abbiamo visto e continuiamo a vedere anche nell’Italia di oggi. E questa è forse la ragione che le rende tanto fragili.

(dalla prefazione a Manuela Consonni, “L’eclissi dell’antifascismo”, Laterza 2015)

Anna Foa

Ti racconto la Resistenza

Resistenza cavagllion piccola Nel 2005 il dibattito sulla Resistenza era quanto mai anchilosato, procedeva per schieramenti rigidi. Le vittorie elettorali della destra di Berlusconi e Fini causavano il panico tra gli storici dell’Italia contemporanea. Era diffusissima l’abitudine al lamento e al grido di dolore, ma qualcuno che facesse qualcosa per rimediare non lo trovavi. Guaire non basta. Pur a disagio nei panni del padre che “spiega” qualcosa ai figli, mi ero messo a scrivere per reagire a questo stato di cose.
Il libretto ebbe fortuna, salì nelle classifiche dei libri più venduti, non per i suoi meriti naturalmente, quanto per conseguenza di quello che i francesi chiamano “il successo dello scandalo”. Mi guardai bene dal montarmi la testa; del resto, i giornali maggiori, dopo essersi interrogati a lungo sulle misteriose ragioni della bocciatura, si guardarono bene dall’entrare nel merito delle due, tre idee, spero non del tutto sciocche, che avevo tentato di esporre.
Le soddisfazioni più belle vennero dai ragazzi, coetanei di mia figlia Elisa, che dal 2005 in avanti, guidati da bravi insegnanti, hanno preso a leggere con impegno in classe quanto avevo composto per loro (e un poco anche per i loro padri…). La vanità che alberga in ogni autore fu appagata un pomeriggio di maggio, sull’Eurostar da Roma a Firenze, quando mi capitò di vedere un ragazzo assorto nella lettura del mio libretto. Sembrava non avere lo sguardo annoiato. E in quegli stessi giorni, non ho dimenticato la voce squillante di Margherita, una compagna di scuola di Elisa, che mi lesse al telefono la scheda uscita su uno di quei giornalini distribuiti gratis nelle stazioni ferroviarie, firmata da Antonella Fiori. In dieci righe diceva tutto quello che avrei voluto e ancora vorrei si dicesse della mia fatica: “In questi giorni di overdose di documentari sui sessant’anni dal 25 aprile cade l’occhio su un libretto di Alberto Cavaglion, quarantanove anni, che tenta una missione impossibile: raccontare a sua figlia Elisa, sedici anni, generazione “non so chi è Badoglio”, la Resistenza. Lo sforzo è di riassumere per blocchi (fu davvero guerra civile? quale significato dare alla violenza?) tenendo presente il filo storico dopo un mare magnum di letture e controletture (da Bocca a Pansa) sul tema. Fare il punto non significa non avere un punto di vista etico-morale. Una lettura dietetica: si esce dal centinaio di pagine senza il senso di aver ingurgitato chili di panna montata”.
Dal 2005 a oggi molte cose sono mutate. In primo luogo è ulteriormente aumentato il disinteresse intorno alla Resistenza, un fuggi-fuggi impressionante, inimmaginabile una decina d’anni fa, per quanto già fosse chiaro allora quanta indifferenza si nascondesse dietro l’indignazione. I giovani hanno continuato a darsela a gambe, gli storici pure (poche, ancorché lodevoli le eccezioni). La maggioranza degli italiani è contenta se i negozi rimarranno aperti il 25 aprile, diventato ormai un giorno feriale come tanti altri.
Le tesi da me esposte, che produssero allora una assai blanda censura, sono oggi largamente condivise (in taluni casi anche troppo!) da chi m’ignorò o mi tacciò di lesa Resistenza. Va soltanto precisato, a scanso di equivoci, che non ho voluto scrivere una storia della Resistenza, ma un semplice libro di famiglia, genere di scrittura che ha una consolidata tradizione, non solo in Italia. La Resistenza spiegata a mia figlia deve tantissimo alla Resistenza narratami da mio padre, che fu tra i dodici giovani a seguire Duccio Galimberti alla Madonna del Colletto il 12 settembre 1943. E non piccolo è il mio debito verso la famiglia intera e la figura commovente di Pino Levi Cavaglione, autore di Guerriglia nei Castelli romani (1945). I libri famigliari sono importanti, ma il loro limite è nella natura transeunte, di chi scrive e di chi legge.
Il morale di chi scrive non è altissimo, inutile nasconderselo: come potrebbe essere diversamente? Una rimonta del 25 aprile sul 27 gennaio mi pare improbabile, era già follia sperarlo nel 2005. Mi sarebbe stato più agevole spiegare ad Elisa le leggi razziste e la Shoah, ma non l’ho fatto perché in quella direzione il vento soffiava forte, troppo forte. Quanto a Elisa, che nel 2015 di anni ne avrà ventisei, dubito che un giorno sarà punta dal desiderio di scrivere di Resistenza ai suoi figli. Tutto cambia. Solo il Cavalier Cipolla non cambia mai. I lettori della prima edizione avevano visto nel capitolo iniziale, in trasparenza, la sagoma del Cavaliere per antonomasia, nel 2005 trionfante. Sbagliavano. Il Cavalier Cipolla è una maschera perenne, non invecchia mai. Risorge sempre sulle ceneri di chi l’ha preceduto. È dal 1925 che il Cavalier
Cipolla cambia volto. Ciò che non cambia mai è la nostra disponibilità all’incantamento.

(dalla prefazione della nuova edizione di “La Resistenza spiegata a mia figlia”, Alberto Cavaglion, Feltrinelli, 2015)

Alberto Cavaglion

Da Haifa a Napoli, quei due della Brigata

rebhun piccola “Heinz è muscoloso e abbronzato. Il lavoro agricolo ha rafforzato una struttura allenata in tempi migliori dal canottaggio, dalla ginnastica agli attrezzi e dal pattinaggio sul ghiaccio. Il naturale colorito bruno, così inconsueto a Berlino, sotto il sole del Medio Oriente è diventato un color cuoio uniforme. I capelli si stanno un po’ diradando, ma la situazione è ancora sotto controllo.
Quattro anni prima, appena dopo l’arrivo al kibbutz, quando gli capitava di guardarsi allo specchio, restava sempre stupito nel vedere riflesso uno sguardo, un aspetto, un abbigliamento in cui non si riconosceva al primo colpo. L’immagine che aveva di sé era ancora quella della foto ricordo che i genitori avevano voluto far stampare in varie copie, per loro e per i parenti, pochi giorni prima della partenza. Nella posa fissata, sviluppata e stampata a casa del fotografo Schwarz, che fino a qualche mese prima aveva ancora il suo studio nella strada principale del quartiere, Heinz appare in secondo piano, dietro a Kurt, o Gughy, come lo chiamano tutti. La sua mano sulla spalla del fratello la dice lunga: dei due gemelli è lui quello che ha visto la luce dopo e quindi è considerato e si considera il più grande. Il fatto che sia taciturno, e rigoroso fa il resto. I completi di tweed di buon taglio, la cintura di lucertola, il fermacravatta d’oro, regalo per il sedicesimo compleanno, rivestono un’identità stroncata sul nascere, sono i costumi con i quali si è chiuso il primo atto della loro vita”. Così inizia, in medias res, la travolgente storia di Heinz e Gughy, i fratelli gemelli protagonisti del nuovo libro di Miriam Rebhun Due della Brigata (Salomone Belforte ed.).
Scappati dalla Germania nazista per approdare nell’allora Palestina mandataria, Heinz e Gughy, pur sradicati, decidono insieme di combattere per la libertà. Mentre lavorano a Haifa e inseguono gli ideali sionisti, ricostruiscono nella mente i brandelli di un passato lontano, fatto di abiti sartoriali ed eleganza europea: “Poi il sipario è calato e nel cambio di scena gli attori hanno indossato nuovi abiti ed acquisito inevitabilmente diverse posture, diversi atteggiamenti. Solo nella testa, nel cuore è rimasto ben sepolto lo strato spesso e inamovibile di tutto quello che è accaduto nell’atto precedente”.
Le vicende narrate nel libro tra testimonianze e immaginazione rispecchiano l’autrice: Miriam Rebhun è nata a Napoli da padre berlinese e madre italiana ed è vissuta a Haifa fino al 1948, anno in cui suo padre muore in un attentato. Dalla cultura cosmopolita, tornata a Napoli insegna italiano e si dedica alla scrittura pubblicando per l’Ancora del Mediterraneo Ho inciampato e non mi sono fatta male, un memoir nel quale ricostruisce la storia della famiglia paterna che si disloca tra Berlino, Napoli e Haifa. Ad essere ancora protagonista del romanzo è infatti ancora Heinz, padre della Rebhun che arriverà in Italia con la Brigata ebraica e dei suoi genitori scomparsi nella Shoah: una storia che racconta come il dolore, nonostante faccia ‘inciampare’ serva a recuperare la propria Memoria negata. Due della Brigata si pone dunque come naturale prosecuzione di quanto iniziato nel capitolo precedente, scavando nell’anima dei fratelli europei che seguono angosciosamente da lontano la sorte dei propri cari di fronte all’avanzata nazista: “Non si parla d’altro. Nei kibbutz, nei moshav, nel quartiere tedesco a Gerusalemme, tra le bianche case Bauhaus di Tel Aviv, al porto di Haifa, alla stazione di Yaffo. La guerra che è scoppiata in Europa sta dilagando fino al Medio Oriente e i territori sotto mandato inglese, pur così lontani, sono minacciati dalle forze del
Reich”.
Creando una struttura fatta di atmosfere e suggestioni, Rebhun costruisce vivissimi dialoghi tra i due, che riflettono sul da farsi e preparando il loro piano di salvataggio: “L’incubo continua. Ce ne siamo andati da casa, lontano, e i nazisti ci inseguono fino a quaggiù… abbiamo cancellato tutti i nostri progetti, facciamo mestieri che non avremmo mai scelto… proprio per dare valore a tutte queste rinunce dobbiamo difenderci, partecipare in qualche modo…”. Dopo essersi arruolato Heinz arriva a Napoli con i giovani della Brigata ed insieme hanno i primi contatti con la Comunità ebraica che aiutano a riorganizzare e rendere di nuovo operativa. Rebhun inizia allora la propria attività di insegnante di ebraico per invogliare i giovani a partire alla volta del futuro Stato ebraico e conosce Luciana, che diventerà la sua compagna. A concludere il racconto dell’epopea dei Rebhun, un ricchissimo apparato iconografico, vivida testimonianza di Heiz e Gughy, legati dal solo sguardo: “I suoi occhi, come sempre, cercano quelli del fratello, questo è il loro modo istintivo, infallibile per ristabilire ogni volta il contatto, la sintonia, l’empatia a cui sono abituati dalla nascita”.

da Pagine Ebraiche, maggio 2015

(26 aprile 2015)