Festa del Libro Ebraico – Amos Luzzatto racconta Dante Lattes

Amos Luzzatto - FerraraRaccontare la grandezza di una figura del passato per riflettere sul presente e, soprattutto, sul futuro dell’ebraismo, e presentare un libro appena uscito in mezzo a un mare di libri di autori ebrei, o dedicati a temi ebraici. “Dante Lattes: l’etica e la pratica”, pubblicato da Bonanno, ha avuto come curatore Amos Luzzatto, una delle figure più significative dell’ebraismo italiano del dopoguerra, che oltre ad essere scrittore prolifico e chirurgo, è stato presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e poi della Comunità ebraica di Venezia. Luzzatto è stato anche direttore della Rassegna Mensile d’Israel, ruolo ricoperto precedentemente dal nonno materno, proprio quel grande rabbino e intellettuale Dante Lattes, a cui l’incontro era dedicato. Moderato e introdotto da Guido Vitale, coordinatore dei dipartimenti Informazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e direttore di Pagine Ebraiche, l’incontro aveva fra i relatori anche l’editore e Saul Meghnagi, che della Collana Ebraismo e Modernità è direttore. Pubblicato con il sostegno dell’associazione di cultura ebraica Hans Jonas, il volume, ha detto Vitale “È molto più di una saggia antologia: si tratta di una occasione gigantesca di riflessione, soprattutto per i giovani, e la prefazione di Amos Luzzatto varrebbe un volume a sé stante”.
La figura di Dante Lattes, personaggio rappresentativo della incredibile trasversalità degli ebrei italiani, è stata da Luzzatto ricordata in principio di incontro tramite le parole di Gaio Sciloni, che amava raccontare come la sua grandezza fosse data non tanto dagli scritti e dagli insegnamenti, quanto dal suo conversare, dal suo ricevere persone, con cui amava lungamente discutere, per poi farle ragionare col suo modo pacato e ironico. Lunghi colloqui privati, in cui lasciava parlare a lungo, solo ascoltando, per poi interrompere con una sua espressione caratteristica, ricordata da tutti coloro che con lui hanno avuto a che fare: “Ma, mi scusi, le pare che…”
Un personaggio che ha attraversato un secolo di ebraismo italiano, la cui grandezza è stata evidente attraverso episodi e vicissitudini di grande spessore, fra Italia e Israele, che lega idealmente i primi due volumi della collana di Bonanno. È infatti pubblicata nel primo volume, “Cosa significa essere ebreo?” cura di Eliezer Ben Rafael, la risposta di Dante Lattes all’allora primo ministro Ben Gurion, e ben rappresenta la scelta del curatore, Saul Meghnagi, di sviluppare un ragionamento sul rapporto fra la tradizione e l’interesse per i problemi concreti, e per la possibilità di vivere il proprio ebraismo indipendentemente dalla soluzione sionista e da Israele. Una scelta coraggiosa, che l’editore Mauro Bonanno ha raccontato con evidente orgoglio, e partecipazione, e sostenuta da Amos Luzzatto, convinto che sia importante confrontarsi con le sfide culturali e sociali odierne: “Bisogna ricordare che sono diverse da quelle che rappresentavano la sfida dei nostri antenati due o tre generazioni fa. Bisogna saperlo riconoscere, e saperlo accettare senza perdere di vista quella continuità che ci permette di essere quello che siamo.”

Ada Treves twitter @atrevesmoked

(28 aprile 2015)

Una lunga intervista, un estratto della prefazione a “Dante Lattes: l’etica e la pratica”, il percorso compiuto attraverso i suoi tanti libri. Così il numero di aprile di Pagine Ebraiche ha voluto raccontare ai suoi lettori due grandi figure dell’ebraismo italiano: Amos Luzzatto e Dante Lattes.

Nato a Roma nel 1928, Amos Luzzatto è una delle figure più significative dell’ebraismo italiano del dopoguerra. Scrittore prolifico e chirurgo, ha ricoperto diversi incarichi politici come quello di presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane dal 1998 al 2006 e in seguito di presidente della Comunità ebraica di Venezia. È stato anche direttore della Rassegna Mensile d’Israel, ruolo ricoperto precedentemente dal nonno materno, il grande rabbino e intellettuale Dante Lattes. Tra gli antenati celebri, anche Shadal, l’esegeta, poeta ed ebraista Samuel David Luzzatto, suo trisavolo. Tra i suoi cugini c’è infine lo scrittore Giorgio Voghera, ultimo testimone del periodo d’oro della Trieste letteraria. Figlio di un socialista perseguitato dagli squadristi fascisti, Luzzatto nel 1939 si trasferisce con la madre e i nonni nell’allora Palestina e solo nel 1946 tornerà in Italia. Sulla promulgazione delle leggi razziste racconta: “Il ricordo principale è l’esclusione della scuola. Io ero stato brillantemente ammesso alla prima ginnasio e poi mi sono sentito dire che ne ero escluso in maniera ignominosa. Studiavo in un giardinetto pubblico con mia madre; questo permetteva agli altri di additarmi e pensare: quello è un giudeo”. Laureatosi, accosta la sua carriera di medico a quella di scrittore, confermandosi una delle voci più influenti dell’ebraismo italiano di sinistra (tra le sue opere Conta e racconta, ed. Mursia e Il posto degli ebrei, ed. Einaudi). Sul suo rapporto con Israele in un’intervista con Repubblica raccontava: “Non voglio sentir dire: ‘Sono d’accordo con il governo israeliano senza se e senza ma’. Voglio sentir dire: ‘Israele esporta un’identità in cui mi riconosco’. Mi hanno accusato di essere tiepido, ma sono stato l’unico presidente ad aver tenuto a Gerusalemme un Consiglio delle comunità ebraiche italiane”. Amos Luzzatto si dedica inoltre alla carriera accademica tenendo un corso sulla lettura ebraica del midrash all’Università di Venezia e all’Università degli Studi Roma Tre. Ha ingaggiato diverse battaglie per contrastare il razzismo (definito “un veleno permanente”), in special modo quello nei confronti dei rom e ridisegnato il concetto di Memoria: “Memoria significa anche scavare nel passato in modo selettivo, per cercarvi non tanto le gesta degli eroi sui campi di battaglia quanto gli esempi di solidarietà e di cooperazione; esempi forse rimasti nell’ombra ma non per questo meno rilevanti, forse al contrario. È questa infine quella Memoria che può diventare uno strumento di fiducia nel domani”. Ha inoltre levato la sua voce per denunciare nuove forme di antisemitismo: “Una delle forme più insidiose è la trasformazione delle critiche al governo israeliano – che come tutti gli altri governi al mondo può essere sottoposto a critiche come ad elogi – in un giudizio sostanzialmente negativo di tutti gli ebrei del mondo e di tutte le epoche”.

“Non rinunciamo alla speranza”
Continua a studiare, a scrivere e ad osservare un mondo difficile. A colloquio con Amos Luzzatto

Varcato il ponte degli Scalzi, dall’altra sponda del Canal Grande bastano ancora solo pochi passi. Dopo tanti anni in prima linea, alla guida di molte istituzioni ebraiche e della stessa Unione, Amos Luzzatto lascia sempre meno volentieri la sua appartata abitazione veneziana. Lui che ha a lungo influenzato l’immagine dell’ebraismo italiano oggi resta lontano dalla scena pubblica e preferisce dedicarsi alle tante riflessioni che hanno segnato il suo itinerario. Ma nel ritorno ai grandi temi che gli sono cari, nell’analisi e nello studio che offrono ancora risultati fecondi, come questa sua ultima guida al pensiero di un grande ebreo italiano come Dante Lattes, di cui riportiamo uno stralcio nelle pagine che seguono, al di là del gusto per lo studio che ha accompagnato la sua vita, traspare ancora il desiderio di interpretare la società attuale, i problemi vivi che attraversa l’Italia ebraica di oggi.
“Oggi – accoglie così il visitatore – sono solo un privato cittadino che studia ancora, scrive ancora ed è pronto ad esprimersi con quei pochi amici che pensano valga ancora la pena di ascoltarlo”.

È necessario mettere avanti tanta prudenza, ancora sulla soglia di casa?
Sono tempi difficili, meglio guardare la realtà in faccia e non farsi troppe illusioni.

L’ottimismo è un sentimento che oggi ha ancora diritto di cittadinanza?
Si corre il rischio di fare molti passi indietro. Ma non dobbiamo cedere, dobbiamo superare il sospetto reciproco, e non lasciare spazio all’inimicizia, nemmeno nelle piccole cose.

Per esempio?
Nella prima stagione di Israele e nella prima generazione del sionismo la conoscenza del mondo circostante era considerata un fattore strategico fondamentale. Se penso ai miei anni a scuola, si studiava l’arabo. Oggi non più. Un grande presidente dello Stato di Israele come Itzhak Navon è stato un maestro straordinario di cultura araba. Tornare nella Gerusalemme liberata dopo la guerra dei Sei giorni e poter leggere i nomi delle strade in arabo, è stato un sentimento che ci ha donato una forza incredibile. Oggi cresce la tentazione della contrapposizione, della prova di forza. E Israele e la Diaspora rischiano di depauperare il loro vero potenziale di forza, che è fatto di cultura e di capacità politica di mediazione.

A proposito di mediazioni, gli anni della presidenza UCEI videro anche un ruolo attivo nella discussa visita a Gerusalemme dell’allora vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini. Un momento storico nel recupero delle relazioni con un esponente di spicco del mondo politico del postfascismo.
Ho incontrato Fini più volte per comprendere la sua istanza di visitare assieme Gerusalemme e lo Yad Vashem. Nel corso dei nostri colloqui fece un tentativo di lettura delle leggi razziste del 1938 come una concessione a Hitler. Lo contestai subito, perché lo sciovinismo esasperato del regime fascista conteneva in sé tutte le premesse per sviluppare il razzismo. Ma gli ricordai anche come molti esponenti ebraici italiani furono fascisti e traditi dal fascismo, tanto da far ipotizzare nel 1935 una sfortunata operazione diplomatica da parte dell’Unione delle comunità israelitiche di allora nei confronti dell’Organizzazione sionistica mondiale perché Londra rinunciasse alle sanzioni contro l’Italia. La delegazione era composta dal letterato ed educatore Dante Lattes e dal poeta Angiolo Orvieto. Nessun politico e nessun diplomatico. Il loro insuccesso contribuì a convincere Mussolini che conveniva cinicamente cambiare cavallo.

Una lezione importante anche per i leader ebraici italiani dei giorni nostri?
La mia presidenza dell’UCEI è un capitolo che potrà forse capire qualcuno di quelli che mi sono stati molto vicini. Rappresentare politicamente gli ebrei italiani ha significato per me difendere e valorizzare l’Intesa con lo Stato italiano. Ma anche dare significato al nostro essere minoranza, una realtà che assieme ad altre minoranze possa offrire concretezza in Italia al pluralismo democratico non sempre adeguatamente sostenuto. Poi fare ogni sforzo per poter esprimere in maniera unitaria il vissuto e le opinioni così diverse fra loro del pubblico ebraico. E ancora coltivare la realtà ebraica europea. Mantenere uno stretto rapporto con la realtà di Israele, religiosa e laica, senza atteggiarsi a rappresentanti della politica israeliana, funzione che in un mondo democratico ed evoluto spetta ai cittadini israeliani e agli organi che si sono dati.

Un decennio è trascorso da allora. Quale valutazione è possibile dare?
Se ho agito con successo non posso dirlo. Questo giudizio spetta agli altri.

Amos Luzzatto non è solo uno studioso, un leader ebraico a riposo, ma anche un osservatore attento della drammatica attualità di questi mesi e un grande conoscitore della realtà di Israele. Che impressione lascia questa difficile stagione?
La questione di fondo in tanti anni non è cambiata. Ricordo quando avevo dieci anni e vivevo nell’antico quartiere di Tel Aviv chiamato Sharona, non lontano dall’attuale grande teatro Habima. Al di là dell’aranceto c’era la difficilissima convivenza con gli arabi. C’erano i Templari tedeschi che avevano immaginato, mentre in Germania prevaleva il nazismo, una loro salita in Israele per affermare fanatici ideali estranei all’ebraismo. C’era la consegna rigorosa di chiudere molto bene a sera le finestre perché durante la notte ci si sparava. Che cosa è cambiato da allora? Il dilemma per noi ebrei credo sia sempre lo stesso. Vogliamo riaffermare le nostre sacrosante ragioni, o vogliamo un accomodamento di pace? Dobbiamo andare d’accordo con i nostri diritti e con la nostra storia, o dobbiamo andare d’accordo con il mondo? Israele è un’isola di democrazia circondata dall’oceano islamico. Deve cercare il compromesso o deve andare fino in fondo e che vinca il migliore? La risposta non ce l’ho. E forse non ce l’ha nessuno. Ma nel frattempo qualcosa possiamo fare.

Cosa?
Per esempio arrivare a un chiarimento vero con il mondo cristiano. Fare del cosiddetto dialogo qualcosa di reale e di sentito dalla collettività. E anche questo, seppur possibile, non è facilmente praticabile. Negli incontri del dialogo si fanno affermazioni significative. Ma quanta parte dell’universo cattolico può essere rappresentata realmente dagli incontri di Camaldoli? Anche qui la risposta non è semplice. Ma il dialogo fra le genti e fra le religioni, in particolare con i cristiani, se seriamente praticato, può rappresentare un granello di ottimismo.

Guido Vitale
Pagine Ebraiche, aprile 2015


Le tante pagine di un ebreo italiano

Le tante anime che dimorano in Amos Luzzatto possono essere catturate sulla carta: scorrendo i cataloghi che raccontano la sua prolifica attività di scrittore si incorre in triple identità, idee e interessi che rivelano la personalità di uno dei più autorevoli esponenti dell’ebraismo italiano. Cosa significa essere ebreo? Cosa vuol dire, poi, essere un ebreo italiano? Ed essere un ebreo italiano di sinistra? Sono queste le domande a cui Luzzatto dà una risposta personale raccontando la propria esperienza di figlio di un socialista, bambino cacciato dalla scuola per colpa delle leggi razziste, poi rifugiato in Israele, e infine medico di successo, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e attivo testimone dell’evoluzione del paese in continua lotta tra emancipazione e una costante paura del diverso dai contorni medievali. Sono numerosi i libri che portano la sua firma, a cominciare forse da quello più onnicomprensivo Conta e racconta. Memorie di un ebreo di sinistra, edito da Mursia nel 2008, in concomitanza con i suoi 80 anni. Un esperimento letterario che, per sua stessa ammissione, non può essere definito un’autobiografia: “Questo è il mio percorso culturale e politico, quindi è giocoforza solo una parte della mia biografia. Per esempio non c’è accenno alla mia attività professionale di medico”.
Ad essere il punto di partenza, una dichiarazione di intenti: “Mi dichiaro di sinistra e sostengo che si debba promuovere una cultura di sinistra, non certo un’ideologia. E mi dichiaro al tempo stesso ebreo; certo, non un ebreo ortodosso, ma uno che è cresciuto immerso nello studio della cultura ebraica”. Ma come coniugare le due anime che alle volte la Storia pone in antitesi? Nel recensirlo, il quotidiano Repubblica definisce Conta e racconta “Un’avventurosa cavalcata attraverso illusioni e tragedie del secolo breve”, la storia sorprendente di “un comunista che parla in ebraico” e che armonizza lo studio dei midrashim con il fervente interesse per la politica italiana. Luzzatto si trova di fronte ad una verità piuttosto incontrovertibile: “Se è difficile essere un ebreo, lo è ancora di più essere un ebreo di sinistra”. Così, barcamenandosi tra il Pci e la comunità di appartenenza, si scontra con le rispettive rimostranze. Tanti i rapporti e gli incontri che vengono rievocati, specie nel periodo della fuga in Palestina (“Fummo discretamente pedinati in treno, in albergo, al ristorante. (…) Fu solo a Haifa, dopo la dogana, che mio nonno dichiarò di respirare finalmente aria di libertà”): mentre la Seconda guerra mondiale infuriava Luzzatto fu cresciuto dal nonno Dante Lattes e trascorse il tempo insieme a studiosi profughi dalla Germania e dall’Austria che forgiarono il suo carattere. E, a chi, dopo aver letto il libro, si dovesse chiedere ancora se essere ebreo e di sinistra sia inconciliabile risponde: “Le istanze egualitarie e di giustizia le ho ricavate proprio dalla cultura ebraica. La Bibbia ne è ricca, basta cercarle”.
Il ruolo degli ebrei nella società dell’Europa costituisce poi la riflessione di Luzzatto nel libro Il posto degli ebrei, pubblicato nel 2003 da Einaudi (per la stessa casa editrice ha pubblicato Autocoscienza e identità ebraica, contenuto in Storia d’Italia), i cui fini sono esplicati dalla stessa copertina con la frase “L’identità di un gruppo umano è fatta di molte storie, di mille sfaccettature. La storia degli ebrei ne è un esempio cruciale. Imprescindibile, per immaginare un nuovo continente europeo e un Occidente diverso”. Un viaggio che esplora le reazioni ebraiche ai grandi cambiamenti che hanno stravolto la storia dell’Europa e che, a partire dal tema dell’assimilazione, si interroga sulla capacità dell’Occidente di accogliere il diverso e le minoranze. Ma chi è l’ebreo? Questa la domanda del libro intervista Se questo è un ebreo di Marco Alloni, pubblicato da Aliberti. Il confronto si apre con il quesito più naturale: “Perché si sa così poco degli ebrei?”, Luzzatto risponde: “O sono loro che non vogliono farsi conoscere o sono gli altri che non vogliono conoscerli. Io sono del parere che sono le popolazioni – la gente di cultura, ma anche tutti coloro che hanno gestito il potere nella società europea durante tutte queste generazioni, durante tutti questi secoli di convivenza con il popolo ebraico – che cercano e hanno cercato di non vedere il fenomeno degli ebrei che vivevano e vivono accanto a loro. E aggiungerei che a mio avviso cercano, e hanno cercato, di non vedere tale fenomeno perché molte volte hanno avuto e hanno paura di specchiarsi in questa realtà. Un realtà che per loro è sempre imbarazzante. Imbarazzante perché è difficile capre come questa gente, alla quale io appartengo, sia arrivata a sopravvivere fino al giorno d’oggi”. E continua: “Bene o male, visto che gli ebrei sono stati prevalentemente un popolo europeo per secoli, essi appartengono alla cultura europea”. Europei sì, ma caratterizzati da una forte identità religiosa che Luzzatto esplora attraverso libri come Leggere il Midrash, pubblicato nel 1999 dalla casa editrice cattolica Morcelliana e al cui tema dedica anche un corso universitario. Nel 2011 sempre per Morcelliana esce Chi era Qohelet, l’Ecclesiaste, testo che da sempre ha incuriosito studiosi e filosofi. “Chi era Qohelet? – scrive nell’anticipazione pubblicata sul quotidiano Avvenire – La risposta della tradizione è semplice: si tratta del re Salomone, nell’ultima parte della sua vita. Infatti, “quando uno è giovane si esprime con la poesia, quando è maturo parla con proverbi sapienzali; quando è vecchio non gli resta che dire che tutto è alito evanescente” (Midrash Qohelet Rabbd, cap. 1). E tuttavia, restano non pochi interrogativi. Primo: come mai il nome di Salomone è menzionato esplicitamente nella presentazione del Cantico dei Cantici e dei Proverbi e ripetuto perfino nell’introduzione al cap. 25 del libro dei Proverbi – e non in Qohelet, dove il nome di Salomone scompare e viene sostituito da un altro nome o, forse, da uno pseudonimo?”.
È poi con la casa editrice Giuntina che Luzzatto pubblica Una lettura ebraica del Cantico dei Cantici, prendendo in esame lo Shir haShirim, le cui interpretazioni si sono moltiplicate nel corso dei secoli. Nel 2013 la Compagnia della Stampa fa uscire inoltre La vanità della memoria, una riflessione che indaga il confine tra ricordo e Memoria e, che senza mai nominare la Shoah, la fa aleggiare su ogni frase e concetto. Ricordi e guerra si intrecciano infine nel romanzo Hermann, un ebreo tedesco nella Roma del dopoguerra (ed. Marsilio), il cui omonimo protagonista, di formazione rabbinica, torna nella capitale alla ricerca di quello che credeva essere il grande amore e, dopo essere rimasto inevitabilmente deluso, decide di diventare insegnante degli ebrei romani più poveri. “Un romanzo che potrebbe inserirsi nella nuova prosa israeliana – recensisce Chiara Mattioni sul Piccolo – una prosa ‘realista’ che sottolinea il fatto collettivo (la lotta del popolo ebraico per il proprio diritto alla vita) ma che non trascura di trattare le questioni del singolo e del suo peculiare destino”. Il romanzo non smette inoltre di affrontare il tema dell’identità ebraica, come recensisce il Forward: “Quando gli ebrei di Roma si chiedono se non sia meglio ‘normalizzarsi’ e diventare come gli altri, Hermann risponde: Se ci comporteremo come gli altri non saremo più noi, gli ebrei”. “Luzzatto – continua il Forward – sa perfettamente di cosa sta parlando, nel 2005 ha scritto la prefazione de ‘Il mio cammino di tedesco e di ebreo’ di Jacob Wasserman dedicato al difficile equilibrio tra la duplice identità”. E proprio così, Amos Luzzatto attraverso i suoi libri, realizza la funambolica opera di essere un ebreo italiano. Di sinistra.

Rachel Silvera
Pagine Ebraiche, aprile 2015

Dante Lattes – Cultura ed etica ebraica

Dopo il Chi è ebreo di Eliezer Ben Rafael, il secondo volume della collana Modernità ed ebraismo pubblicata da Bonanno editore e dall’associazione di cultura ebraica Hans Jonas propone un’antologia degli scritti del grande pensatore e rabbino italiano curata e introdotta da Amos Luzzatto. Ecco qui di seguito uno stralcio dall’introduzione. La collana proseguirà con studi di Sergio Minerbi ed Emanuela Semi Trevisan.

Scrivere di Dante Lattes è per me come fare un pezzetto della mia stessa autobiografia. Ero infatti il suo unico nipote, cresciuto e allevato in casa sua dopo la crudele infermità mentale che mi aveva sottratto il padre all’età di due anni.
E tuttavia si tratta persino per me di un’impresa non facile, perché egli era una persona che parlava molto poco di se stessa, che pareva attribuire pochissima importanza alle proprie esperienze personali; in molti casi poteva fornire ricordi più significativi di esperienze che lo avevano visto osservatore o spettatore di quelle che lo avevano visto come protagonista.
Ci teneva a ricordarsi di discendere da una famiglia ebraica di lontana origine provenzale, della quale menzionava l’antenato Bonnet de Latés. Fra gli antenati in Italia ricordava anche un medico presso la corte papale; sapeva che i suoi antenati erano poi stati espulsi dallo Stato della Chiesa ma non si era curato di sapere quando e perché. Sapeva che si erano rifugiati subito oltre i confini, nella cittadina di Pitigliano, rocca degli Orsini, appartenente al Granducato di Toscana. Della sua infanzia a Pitigliano narrava soltanto di essere stato colpito alla fronte da un sasso gettatogli da un ragazzo dal ponte di accesso alla cittadina; e ne mostrava quasi soddisfatto la piccola cicatrice residua.
Ricordava sempre quando, ancora ragazzo, i suoi si trasferirono a Livorno, facendo un viaggio in treno che a quei tempi era lunghissimo e comportava persino uno o più cambi.
Il padre, sarto, era molto povero ma chi lo conobbe lo descriveva come un uomo gioviale, cameratesco, e, all’occasione,buon bevitore, socievole e scherzoso, al riparo di un pizzetto biondo che era il suo biglietto da visita.
A Livorno Dante Lattes aveva fatto i suoi studi, frequentando le Scuole ebraiche e il Collegio rabbinico sotto la guida del filosofo e cabbalista Elia Benamozegh, rampollo di una nota famiglia ebraico-marocchina.
Malgrado la sua piccola statura era riuscito ad eccellere negli esercizi di ginnastica, soprattutto nella corsa e nel salto in alto; e se ne compiaceva. Nel corso degli anni della sua scuola aveva anche trovato il modo di guadagnare qualcosa, aiutando negli studi i ragazzi più giovani e persino ricopiando le parti di commedie teatrali che sarebbero poi state recitate all’Arena, il teatro (credo all’aperto) della città.
Della sua famiglia raccontava poco. Un suo fratello più anziano, Guglielmo, sarebbe stato dopo la grande guerra direttore del Vessillo Israelitico, fondato da Flaminio Servi, rabbino di Casale Monferrato. Personalmente non mi pare che mio nonno avesse una grande opinione di quel periodico. Un figlio di Guglielmo, Aldo, che ho conosciuto nella mia infanzia, sarebbe stato fra i primi cappellani militari ebrei e anche rabbino di Tripoli in Libia in un periodo alquanto tempestoso.
Dante Lattes amò sempre Livorno, che era per lui quasi una seconda patria; derivò da quella città il suo accento toscano, al quale teneva molto.
Appena conseguito il titolo di maskil, alla fine del XIX secolo, fu inviato presso la Comunità di Trieste, allora in Austria, per fungere da officiante presso la Schola Vivante e da insegnante di materie ebraiche presso le classi – molto indisciplinate – dove studiavano i figli della comunità corfiota, la componente più povera degli ebrei di quella città. Fu in uno di quegli anni che tornò a Livorno per fare gli esami di chakham .
Gli ebrei triestini lo accolsero bene, tanto che persino lui, toscano di nascita e di famiglia, molti anni dopo, in ospedale a Venezia, meravigliò i presenti, lamentandosi…in triestino!
A Trieste si sposò con Emma, una figlia di Nino Aronne Curiel, allora segretario della locale Comunità e direttore del mensile “Il Corriere Israelitico”, che dopo la sua morte fu diretto assieme da suo figlio Riccardo e da suo genero, appunto Dante Lattes. Successivamente, durante la Prima Guerra mondiale, fondendosi con la “Settimana Israelitica” di Firenze, diretta da Alfonso Pacifici, avrebbe dato origine al settimanale “Israel”.
La sua lunga esperienza triestina lo mise in stretto contatto con una nuova tipologia di ebrei. A partire dall’uso liturgico: ancor oggi Trieste è una Comunità dal rito (minhag) tedesco (ashkenazita). Gli ebrei del posto parlavano in italiano, o, per essere più precisi, in dialetto triestino; ma si erano formati nelle locali scuole governative; quasi tutti conoscevano il tedesco, molti avevano fatto l’Università a Graz ed erano stati a Vienna.
Erano sudditi di quell’Impero dalle molteplici nazionalità che parlavano numerose lingue, con il tedesco che le collegava fra di loro, assieme alla Maestà di Francesco Giuseppe. Mia mamma mi narrava che ogni mattina, quando frequentava la scuola a Trieste, era obbligatorio per tutti cantare in piedi in coro l’inno austriaco (prima in tedesco, poi nella versione italiana):
“Gott erhalte, Gott beschütze / unsern Kaiser, unser Land / Maechtig durch des Glaubens Stuetze / faehrt er uns mit weiser Hand!…”
“Serbi Dio l’austriaco Regno / guardi il nostro Imperator / Nella fede gli è sostegno, / regga noi con saggio amor!…”
“Serbi Dio l’austriaco Regno / guardi il nostro Imperator” (gli irrendentisti, sarcastici, dall’inizio delle tre prime parole lo chiamavano El serbidiola: “I ve g’ha fato cantar el serbidiola ?”).
Laddove l’Italia, quando parlava straniero era quasi sempre il francese, qui il tedesco era la lingua ufficiale; l’italiano era, tuttavia, per Francesco Giuseppe, la lingua di uno dei suoi popoli. Mica male, però, se paragonato al XX secolo!
Mio nonno deve essere stato presto in condizione di leggere testi in tedesco; nella sua biblioteca (e ora nella mia) facevano bella mostra di sé i tre volumi dei Tagebücher di Theodor Herzl, orgoglio dei sionisti jekke. Non scriveva in questa lingua, ma ricordo benissimo di averlo visto sostenere un dialogo in tedesco, molti anni dopo, a Tel Aviv. Mia mamma invece lo conosceva bene, e me lo aveva fatto anche un po’ studiare a casa, da bambino.
Quello che contava soprattutto era il fatto che gli anni passati nella Trieste austriaca lo avevano messo in contatto con quel mondo ebraico ashkenazita, il mondo centro ed est-europeo, culturalmente ricchissimo e demograficamente molto numeroso, del quale parleremo più avanti.
Suddito italiano, ai primi di maggio del 1915 dovette rientrare sollecitamente in Italia con moglie e figlie, evitando così l’inevitabile internamento come appartenente a un Paese nemico. Seguì un periodo di migrazioni fra Padova, Siena, Firenze e Roma; a Siena subì la perdita della secondogenita, Nora; fu per lui uno shock dal quale non si riebbe mai e che forse influenzò non poco anche il suo pensiero ebraico. Molto sostenuto in quella triste circostanza dall’amicizia con Alfonso Pacifici, giunto infine a Roma, dove per lungo tempo fu ospite in una piccola pensione, cominciò una stretta collaborazione con l’Organizzazione Sionistica Mondiale, oltre che una serie di impegni didattici e pubblicistici. A Roma conobbe e fece amicizia con una serie di ebrei di provenienza est-europea, primo fra tutti Moshe Beilinsohn, russo di nascita, laureato in Medicina, sionista attivo, che fu poi in Palestina dove lo ritroviamo fra i fondatori del quotidiano socialista Davar. Fra i residenti in quella stessa pensione va segnalata Xenja Panfilovna, una russa non ebrea, coniuge e compagna di lotta di Lev Silberberg, un ebreo russo che sarebbe morto in un campo di detenzione come sovversivo. La loro figlia, anche lei di nome Xenia, detta Xenjuṧka, “Xenietta”, sarebbe diventata la prima moglie di Emilio Sereni, futuro senatore del PCI, fratello minore del chalutz e vittima nazista Enzo Sereni.
Per Lattes la conoscenza della realtà dell’ebraismo est-europeo ebbe una svolta decisiva grazie a questo ambiente. Gli ebrei polacchi, russi, ungheresi e romeni gli si presentarono con la loro ricchezza culturale polimorfa. C’erano naturalmente anche i chassidim e le loro corti con i singolari “Wunderrebbes”, i rabbini ritenuti operatori di miracoli, ma anche i “maskilim”, malamente detti gli illuministi ebrei, i letterati, i poeti, i pensatori ebrei “laici”, che scrivevano in yiddish e in ebraico moderno, gli storici quali Heinrich Graetz, Simon Dubnow e Ben-Zion Dinaburg (poi Dinur); da quelle terre erano partiti i colonizzatori delle prime ‘aliyot . In altre parole, il sionismo, che in Italia poteva parere un movimento idealistico ma velleitario e utopistico, carico di teoria e di fede, aveva già allora fra le masse ebraiche dell’Europa dell’Est il carattere di un movimento nazionale realizzatore. Rapporti fra gli Ostjuden e gli ebrei italiani non erano certo mancati precedentemente: era notevole la fama di Ramchal, Moshe Chaim Luzzatto di Padova, poeta, cabbalista, talmudista, che era stato soprannominato dal poeta Chayim Nachman Bialik ha-bachur mi-Padova, “il giovane padovano”; e lo stesso Gaon di Vilna aveva dichiarato che se Ramchal fosse stato ancora vivo ai suoi tempi, sarebbe andato a piedi dalla natìa Lituania a Padova per udire dottrina dalla sua bocca. Molto apprezzamento, dunque; ma la concreta vita ebraica, i milioni di ebrei che vivevano, fra la Russia zarista, le provincie austriache e la nascente potenza prussiana, era estranea ai costumi degli ebrei italiani che poco sapevano delle lotte e delle sofferenze, persino del modo di parlare e della pronuncia stessa della lingua ebraica usate in quelle terre.
Lattes e Beilinsohn intrapresero allora un’intensa attività di traduzione, di studio e di presentazione di questa nuova realtà al pubblico italiano, sia a quello ebraico sia a quello non ebraico. Questo era certamente connesso al loro modo di essere sionisti, che significava soprattutto valorizzare, consolidare il carattere nazionale della realtà ebraica. In Italia, al contrario, l’identità ebraica si confondeva e si identificava con una pratica tutta cultuale, designata israelitica, che era quasi un sottinteso per significare che si stava parlando di una collettività di italiani che seguivano un credo religioso diverso da quello cattolico maggioritario. Fu in quei tempi che Dante Lattes coltivò due nuovi tipi di relazioni con il mondo ebraico. Da un lato, con i nuovi autori, come Achad ha-‘am, Martin Buber, Yosef Klausner, A.H.Weiss di Vienna, gli storici della filosofia ebraica di Gerusalemme, come Julius Gutmann; dall’altro, con i giovani ebrei palestinesi che venivano a studiare in Italia, come i fratelli Ben Dor, i quali già usavano l’ebraico moderno come lingua propria.
Con la fine della guerra e il crollo, fra gli altri, dell’Impero ottomano cui era appartenuta la Palestina, con le speranze suscitate dalla dichiarazione Balfour, con lo stimolo esercitato dal risorgere, nella stessa Europa, di nazionalità ansiose di recuperare una propria autonomia e una propria rinascita, questa rete di comunicazioni prometteva novità straordinarie anche per gli ebrei, e soprattutto ne esaltava la componente nazionale, proiettandola in prima linea. Ma, in Italia, con inevitabili limiti.
Il numero degli ebrei, qui, era modesto; la loro rappresentanza era prevalentemente una espressione delle media, a volte anche della grossa borghesia del Paese, che era uscita dall’esperienza bellica con quello che pareva essere il completamento del sogno risorgimentale. Ironia della sorte: liberata dal dominio straniero, l’Italia era ora diventata dominatrice di altri popoli. I tedeschi del Sud Tirolo, gli sloveni a Trieste e, grazie a D’Annunzio, i croati a Fiume – per non dire dei greci e turchi del Dodecaneso e delle aspirazioni a diventare una potenza coloniale. In questo quadro, l’identità ebraica tendeva a vestire al massimo i caratteri di una minoranza religiosa.
È vero che a Firenze l’amico di Lattes, Alfonso Pacifici, anche sotto l’influenza del rabbino Shmuel Zvi Margulies , ebreo “ortodosso” dell’Est, insegnava a un gruppo di giovani ebrei colti ed entusiasti che l’identità ebraica non poteva risolversi nelle categorie accettate dall’Occidente, quelle di nazione e/o di religione; si trattava di una presenza originale, non classificabile secondo i criteri correnti ma solo sulla base di una relazione profonda con la Divinità-una: gli ebrei sarebbero appartenuti a una classe inedita, detta Israele l’unico.
Questo non poteva, e in effetti non poté dare origine a un movimento di massa ma solo a un qualificato gruppo intellettualmente prezioso, che si sarebbe sviluppato a fianco della moderna ortodossia ebraica, soprattutto in Israele.
In Italia, d’altronde, una realtà nazionale ebraica non era mai propriamente esistita, almeno fino a quando non vi fu importata da due sorgenti: la più importante, quella dell’Yishuv (insediamento) ebraico in Palestina, con i suoi circoli, i suoi giornali, le sue scuole e il suo teatro, dal 1925 anche con la sua prima università. La seconda sorgente, che era stata fondamentale per le prime realizzazioni nella stessa Palestina mandataria britannica, era quella dell’ebraismo detto ashkenazita, che aveva costituito lo scheletro portante dello stesso movimento sionistico. Costruire, nell’atmosfera generale del primo dopoguerra, una nazionalità ebraica più o meno come se ne costruiva una jugoslava o una cecoslovacca, non era più un sogno ma un obiettivo concreto. La presenza di Dante Lattes sul palco all’inaugurazione dell’Università ebraica di Gerusalemme con il discorso di lord Balfour è perfettamente coerente con questo sforzo.
Nel frattempo però l’Italia era cambiata, era diventata un regime fascista e Mussolini aveva pensato anche al processo della edificazione sionistica come a una delle possibili pedine nelle sue aspirazioni medio-orientali.
Il regime pareva aver conseguito alcuni successi promettenti.
La conquista, contro le ambizioni francesi, del rabbinato di Alessandria d’Egitto, l’istituzione della Fiera del Levante a Bari, della Scuola marittima per giovani ebrei a Civitavecchia, l’insegnamento – sia pure opzionale – della lingua italiana nelle classi superiori della Gimnasia Herzlia (corrispondente a un liceo) di Tel Aviv sono tutti elementi di una tendenza complessiva che avrebbe dovuto privilegiare gli ebrei e garantirsi il loro consenso, da estendere poi al di là dei confini italiani.
A mio parere, la svolta, che doveva diventare la premessa alla legislazione razzistica antisemitica di soli tre anni dopo, si verificò nel 1935, quando il governo italiano chiese un intervento ebraico tramite l’Organizzazione sionistica mondiale, che aveva sede a Londra, per scongiurare le sanzioni (del resto mai seriamente applicate) che avrebbero dovuto ostacolare l’aggressione fascista all’Etiopia. Non potendo rifiutare, quella che si chiamava allora l’UCII (Unione delle Comunità Israelitiche Italiane) inviò a Londra una mini-delegazione di due sole persone, che non erano politici o diplomatici ma …intellettuali: Dante Lattes, appunto, e il poeta Angiolo Orvieto .
Il risultato fu totalmente negativo e molto probabilmente fu allora che il regime comprese quanto debole potesse rivelarsi essere l’appoggio dell’ebraismo italiano, ammesso e non concesso che fosse realmente e in maggioranza disponibile. Si doveva “cambiare cavallo”. (…)

Amos Luzzatto – Dante Lattes – Cultura ed etica ebraica.
da Pagine Ebraiche, aprile 2015

(28 aprile 2015)