Qui Firenze – Una storia di famiglia
In “Un mondo senza noi”, pubblicato in gennaio da Piemme, la scrittrice e giornalista Manuela Dviri fruga nei cassetti della propria vicenda familiare per ricostruire un intenso affresco di storia ebraica prima, durante e dopo la Shoah. Gli indifferenti di ieri, gli indifferenti di oggi. Emarginazione, dolore, speranza. Temi che sono stati toccati ieri, presso la caffetteria delle Oblate, nel corso di una partecipata presentazione fiorentina. L’evento, organizzato dalla Comunità ebraica in collaborazione con l’Opera del Tempio, ha visto gli interventi dell’assessore al Welfare e Integrazione del Comune Sara Funaro, dell’assessore comunitario alla cultura Enrico Fink, dell’antropologo Ugo Caffaz (che è anche referente delle iniziative sulla Memoria della Regione Toscana) e di Massimo Toschi, consigliere regionale per la pacificazione tra i popoli. A condurre l’evento il giornalista di Repubblica Ernesto Ferrara.
UN MONDO SENZA NOI
Ieri pomeriggio, nella assolata altana della Biblioteca delle Oblate, è stato presentato il libro di Manuela Dviri “Un mondo senza noi” con la partecipazione di Sara Funaro per il Comune di Firenze, Ernesto Ferrara de La Repubblica, Ugo Caffaz, Massimo Toschi ed Enrico Fink (responsabile culturale della Comunità ebraica di Firenze) e alla presenza di membri della Comunità e svariate altre persone.
L’interesse verteva non solo sul contenuto del libro ma anche sulla personalità di una donna che ha saputo trovare “il bene” in tanto “male” e dolore.
Questa è la forza di tante figlie e figli di Israele che, da secoli, combattono con forza le avversità della vita.
Come sarebbe stato il mondo senza gli ebrei, se Hitler ed il suo pensiero avessero avuto il sopravvento? Sappiamo che la Storia non si fa con i “se”, ma l’autrice con un po’ di pessimismo, che in fondo non le appartiene affatto, pensa che tutto sommato sarebbe cambiato poco e pochi avrebbero sentito la mancanza.
Ma proprio dagli interventi e dallo scorrere del pensiero, si è capito che non esiste un “noi” e un “loro” definito, ma un mondo senza le brave persone, le persone capaci di dare agli altri qualcosa di proprio, sarebbe stato un mondo diverso ma non certo migliore.
Monica Nathan
UN MONDO SENZA NOI
Certe storie di famiglia restano per sempre imprigionate in vecchi cassetti, di quelli con la chiave dorata che nessuno osa aprire. Questo vale per le famiglie che di storie, documenti e foto alla mano, ne hanno ancora da raccontare. Perchè poi ci sono tutte le altre, quelle alle quali non è rimasto nulla. Deportazioni, bombardamenti, saccheggi, incendi. Gli anni dal 1938 al 1945 non hanno risparmiato sofferenze agli ebrei italiani. E il ritorno alla vita, pur con l’orgoglio della Brigata Ebraica che risaliva l’Italia portando speranza agli ebrei sopravvissuti, non fu mai un vero ritorno alle proprie vite, cambiate per sempre in quel dopo, che non poteva dimenticare il prima, la vita assimilata e spensierata di prima della guerra.
Manuela Dviri ha aperto quei cassetti e le storie, molte e parallele come le parti di cui si compone la sua frastagliata famiglia, hanno iniziato a cercarla e a trovarla. Me la immagino così, mentre scrive qui a Tel Aviv l’estate scorsa, a pochi isolati da casa mia: come al centro di una piccola tromba d’aria che le deposita storie arruffate, disordinate, tutto intorno. E lei, mentre in città suonano di nuovo gli allarmi e ci si rifugia nei sottoscala e dove si può, fa ordine in tutte quelle parole, mette in fila i nomi e le generazioni, e scrive.
Il suo “Un mondo senza noi” (uscito in gennaio per Piemme) è il mondo che avrebbero voluto prima i fascisti e poi i nazisti. E’ l’Italia dell’estate che lei chiama inizio della Vergogna, nel 1938, quando al rientro a scuola insegnanti e bambini ebrei sono già stati allontanati, e da allora rimarranno per sette lunghi anni fuori dal sistema scolastico italiano. Sette anni, il tempo di tutta una infanzia, di una giovinezza, il tempo per metter su una carriera.
La Dviri rintraccia i suoi antenati fino al Settecento, ma – anche per mancanza di documentazione così antica – si concentra a seguirne le alterne vicende fra inizio Novevento e la Shoah. Li va a scovare nelle foto di famiglia, si interroga sui loro baffi e sulle velette dei ritratti, indovina di ognuno il carattere, le debolezze e i punti di forza. I contemporanei discendenti di tutto questo albero genealogico principalmente anconetano e padovano le portano soccorso ciascuno con una storia, un ricordo, una fotografia. Questo libro è come una raccolta di retri di cartoline, pieno com’è di date e avvenimenti che nessun italiano dovrebbe dimenticare. La narrazione è rapida e diretta e sembra fatto apposta per ricavarne un film.
Si ride, a volte controvoglia, e prendono improvvisi groppi in gola, a leggere dei Russi, Salmoni, Nissim, Basevi, Vitali Norsa, che dopo decenni di radicamento nell’Italia emancipata, vivono o soccombono per una delazione, fuggono o stanno immobili, rintanati, sperando di non essere presi, protetti da amici o sconosciuti non ebrei. Vittorio attraversa con tre amici mezza Italia in bicicletta per raggiungere gli alleati, e scampa a una fucilazione fascista mentre era già al muro. Ada non riesce a passare in Svizzera con tutta la famiglia per via di un capriccio della figlia di quattro anni – ma si salveranno ugualmente. Giacomo con il figlio Sergio invece, sono fra quelli che non faranno ritorno, e l’azienda di famiglia che prima della Vergogna dava da lustro oltre che di che vivere a tutta la famiglia allargata e a centinaia di anconetani, dopo la guerra andrà in malora. Giuliana e Lello, i genitori di Manuela, non faranno mai i mestieri che avrebbero voluto e potuto fare, e non perdonano l’Italia per aver tolto loro quello che ad ogni altro italiano era concesso: la scelta.
L’autrice accompagna il lettore avanti e indietro nel tempo, in una specie di tango in cui, mentre le storie di famiglia si snodano lungo cent’anni, si infiltrano brevi riflessioni sul presente e passato recente in Israele, e la guerra contro Hamas a Gaza nell’estate 2014. Si dice spesso che Israele è una nazione di post-traumatici. Forse anche gli ebrei italiani del dopo, i salvati perchè i sommersi non ritornarono, sono stati a modo loro post-traumatici, ma la loro peculiarità di ex discriminati, poi perseguitati e infine deportati o ammazzati sul luogo, si è diluita nel dramma più ampio del dopoguerra italiano, dove mangiare era il problema principale per i più. Resta il fatto che dopo la guerra molti ebrei continuarono a frequentarsi quasi quanto sotto le persecuzioni, secondo Manuela Dviri anche perchè avevano perso la fiducia negli altri. Quelli che dopo sette anni non chiedevano ai colleghi (troppo pochi) reintegrati, e ai bambini nuovi compagni di banco: dove siete stati per tutto questo tempo?
“Un mondo senza noi” non è un libro di storia ma mette a disposizione un pezzetto della storia di noi ebrei italiani, quelli che hanno scelto di restare e quelli che, come Manuela Dviri e come chi scrive, hanno scelto la via di Israele.
Daniela Fubini (Pagine Ebraiche Febbraio 2015)
(6 Maggio 2015)