J-Ciak – La verità di Ilan
Può piacere o no, ma è uno di quei film che vanno visti per capire dove stiamo andando. “24 jours, la vérité sur l’affaire Ilan Halimi” di Alexander Arcady, in onda questa sera su Raidue, ci schiude una delle tragedie più emblematiche degli ultimi anni. Il film ricostruisce il rapimento, nel 2006, di Ilan Halimi, ventitreenne ebreo francese, che dopo ventiquattro giorni di prigionia e torture sarà ritrovato agonizzante e morirà in ospedale.
Ilan è divenuto il simbolo di un antisemitismo che da allora ha visto in Europa altri violenti attacchi, a Parigi come a Bruxelles e a Copenaghen. Ripercorrere quei ventiquattro giorni significa riannodare i fili di una storia intollerabile, in cui l’odio dei sequestratori s’intrecciò al silenzio colpevole di chi sapeva mentre la polizia e tanta stampa fino all’ultimo vollero ignorarne la matrice antiebraica.
Già presentato in molti festival e da pochi giorni nelle sale americane, “24 jours” racconta come Ilan Halimi, parigino, impiegato in un negozio di telefonia, fu rapito il 21 gennaio del 2006 dalla cosiddetta Gang dei barbari, capeggiata da Youssouf Fofana, immigrato ivoriano di seconda generazione.
“Ilan è stato torturato per ventiquattro giorni da giovani fra i 17 e i 23 anni, di tante nazionalità: un portoghese, un bretone, un marocchino, un egiziano, uno dell’Africa nera”, spiega la madre Ruth, che assieme a Emilie Frèche nel 2009 ha pubblicato un libro-testimonianza che porta lo stesso nome del film, che si ispira proprio al suo racconto. “Alcuni di quei giovani lo nutrivano, ma la maggior parte lo ha torturato gratuitamente. Perché? La risposta è semplice: non sarebbe accaduto se non fosse stato ebreo”.
Fin dai primi giorni Ruth vede nell’antisemitismo la chiave di volta del crimine, ma la polizia francese preferisce ignorare questa pista, come fanno i politici e molta stampa. Solo pochi mesi prima scontri e manifestazioni hanno incendiato le banlieue parigine, con migliaia di giovani immigrati di seconda generazione, soprattutto arabi e nordafricani scesi in piazza. La Francia è ancora sotto choc e nessuno ha dimenticato quanto accaduto nel 2004. Allora un caso di antisemitismo che aveva fatto scandalo – una ragazza che aveva denunciato di essere stata rasata e marchiata con delle svastiche da una gang di nordafricani, sempre nella banlieue parigina – si era rivelato infondato. In questo clima – sembrano pensare i più – alludere all’odio razziale avrebbe l’unico effetto di esasperare di nuovo le tensioni, cosa da evitare con cura in un paese come la Francia in cui vivono la comunità ebraica e araba più grandi d’Europa.
Ci si chiede, guardando il film, se la traccia additata dalla madre avrebbe potuto salvare Ilan. Il regista Arcady, ebreo algerino emigrato in Francia da bambino, non ne è così sicuro. “La polizia lavorò ventiquattro ore al giorno per ventiquattro giorni, con tutte le sue forze – spiega – Purtroppo vennero fatti molti errori, perché per timore di sbagliarsi non considerarono il rapimento di Ilan Halimi un caso di antisemitismo ma un fatto criminale. Non si può però biasimarli del tutto. C’è sempre un elemento di probabilità, e, come dice Ruth Halimi, non ne aveva alcuna a suo favore”.
Quei 24 giorni, che il film attraversa senza mai indulgere in scene troppe violente, sono un supplizio atroce per Ilan. Il giovane è torturato, affamato, umiliato, mentre i suoi genitori ricevono centinaia di telefonate dalla Gang dei barbari e sono tempestati da insulti e minacce. Ruth e Didier non possono pagare il riscatto richiesto, perché non sono ricchi, come i rapitori sono invece certi siano tutti gli ebrei e Ilan alla fine viene abbandonato, ancora in manette, in un parco.
Alexander Arcady ricostruisce il crimine e la tempesta emotiva che lo attraversa con i ritmi serrati di un thriller, che malgrado alcune sottolineature di troppo, riesce a tenere lo spettatore avvinto allo schermo. Anche se purtroppo conosciamo il finale. Bernhard Henry Lévy, che parteciperà allo speciale di Virus che seguirà il film insieme al rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, ha più volte notato la simmetria tra la morte di Ilan Halimi e quella di Daniel Pearl, il giornalista ebreo americano rapito e ucciso a Karachi nel 2002. Sull’Huffington Post il filosofo ha ricordato come, in una scena del film, la famiglia riceva una cassetta dai rapitori. E’ la prova che Ilan è ancora vivo. “Si sente il giovane uomo dire, in sostanza ‘Io sono ebreo, mio padre è ebreo, mia madre è ebrea’, le stesse parole pronunciate da Daniel Pearl qualche anno prima in una situazione analoga”.
Daniela Gross
(7 maggio 2015)