Qui Milano – L’ebraismo nascosto a Mashad
Musulmani alla luce del sole, ebrei nel privato delle proprie case. È la vicenda della Comunità ebraica persiana di Mashad, raccontata da Daniel Fishman nel suo Il Grande nascondimento – La straordinaria storia degli ebrei di Mashad (Giuntina), presentato ieri sera al centro Noam di Milano. “Una storia unica perché avvenuta in epoca moderna e in terra musulmana, tramandata a lungo solo per via orale e ai più poco nota”, ha spiegato Fishman davanti a una sala gremita. E tra il pubblico, molti quella storia la conoscono per averla vissuta in prima persona o per esserne i diretti eredi. Una ricostruzione storica, quella di Fishman, che prende avvio dall’anno 1839, data in cui a Mashad, oggi la seconda città dell’Iran, dopo pogrom e violenze la comunità ebraica fu costretta a convertirsi in massa all’Islam. O la conversione o la morte, la cruda alternativa presentata agli ebrei. “In molti scelsero di diventare musulmani – ha spiegato l’autore – ma in segreto, di nascosto dalle autorità, continuarono, grazie ad abili stratagemmi, a coltivare la propria identità ebraica”. “Un esempio di resistenza, di coraggio del compromesso e di capacità di difenderlo”, il commento di Giancarlo Bosetti, direttore della rivista Reset Dialogues on Civilization e tra i relatori dell’incontro assieme al giornalista Antonio Ferrari, al presidente del Noam e Consigliere della Comunità ebraica milanese Davide Nassimiha e rav Jacov Simantov. Per Bosetti la storia dell’ebraismo di Mashad, che oggi rivive in Comunità sparse tra Milano, New York, Londra e ovviamente Israele, è un esempio di forza e di capacità di adattamento alle difficoltà, di resistenza all’oppressione e di coraggio nel riuscire, nonostante tutte le avversità, a mantenere salda la propria identità. Come racconta nel suo saggio Fishman, gli ebrei di Mashad – o jadidim, come furono chiamati dopo la conversione forzata – per oltre un secolo riuscirono a preservare il proprio ebraismo, coltivandolo con grande rischio all’ombra delle proprie case, mentre pubblicamente iniziarono a seguire gli usi e le regole dell’Islam: ne adottarono i nomi, gli abiti e le pratiche alimentari, si recarono nelle moschee, cercando di apparire agli occhi delle autorità e dei vicini come dei normali musulmani. Una normalità fittizia che nasconde una straordinaria capacità nel confrontarsi con una vita così schizofrenica, ha affermato ieri il giornalista Antonio Ferrari, rimasto affascinato dalle vicende della Comunità Mashdì. “Il rispetto delle mitzwot (i precetti dell’ebraismo) per gli ebrei di Mashad divenne un modo di vivere, era un codice etico mascherato e sono state talmente metabolizzate da rimanere impresse in modo indelebile nel nostro Dna”, ha spiegato Davide Nassimiha, presidente del Noam e Consigliere della Comunità ebraica di Milano.
“Mantenere e tramandare”, le parole che secondo rav Yacov Simantov descrivono in modo chiaro la storia dell’ebraismo Mashdì di cui il pubblico ha potuto conoscere alcuni aspetti grazie alla suggestiva esposizione realizzata per l’occasione sulle tradizioni della Comunità persiana: Kettuboth, arredi, abbigliamenti tradizionali, oggetti rituali e una piccola mostra fotografica hanno dato un interessante affresco di questa realtà, senza dimenticare i sapori e i profumi di alcuni dolci tipici offerti nel corso della serata e cucinati dalle donne della Comunità.
Alla serata, molto partecipata, erano presenti tra gli altri il Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Guido Osimo, il presidente della Comunità milanese Raffaele Besso e diversi Consiglieri.
d.r.
(8 maggio 2015)