Menashe Kadishman (1932 – 2015)
Noto in Italia come “il pastore della Biennale” per aver portato a Venezia un gregge di ovini colorati quando vi ha rappresentato Israele (1978), Menashe Kadishman è salito alla ribalta artistica soprattutto grazie alle sue sculture metalliche e ai grandi dipinti di pecore colorate. E le sue opere, da Israele, hanno conquistato le gallerie di tutto il mondo.
Dal 1947 al 1950 ha studiato con lo scultore israeliano Moshe Sternschuss all’Avni Institute of Art and Design di Tel Aviv, per proseguire nel 1954 con lo Rudi Lehmann, a Gerusalemme. Nel 1959, trasferitosi a Londra, ha frequentato la Saint Martin’s School of Art e la Slade School of Art per perfezionarsi con Anthony Caro e Reg Butler. Proprio a Londra, pochi anni dopo, la Grosvenor Gallery ha organizzato e ospitato la sua prima personale.
Le sculture degli anni Sessanta erano in stile minimalista, progettate in modo da sfidare la gravità tramite equilibrio e costruzione attente, come in “Suspense”, o utilizzando vetro e metallo in modo che il metallo sembrasse sospeso. Includendo il vetro nelle sue opere, ha spiegato, ha voluto dare spazio all’ambiente.
Kadishman, che ha vissuto e lavorato per lunghi anni nel centro di Tel Aviv, ha cresciuto nell’arte anche i suoi due figli: il primo è diventato pittore e la seconda, attrice, ha poi spostato l’artista Eran Shakine. Era legato all’Italia anche da una vicenda familiare: per alcuni anni ha vissuto a Bologna sua sorella, che negli anni Cinquanta lavorava come maestra nella scuola della comunità ebraica.
Vincitore di premi prestigiosi in tutto il mondo, dalla Biennale scultura di Parigi al Sandberg Prize, dal Norwegian International Print Biennale a Fredrikstad al Mendel Pundik Prize for Israeli Art, nel 1995 ha ricevuto l’Israel Prize per la scultura.
“Non era soltanto un grande artista ma anche un grande uomo. Aveva un grande cuore, era buono, generoso e per lui erano importanti i valori sociali”. Così lo ha ricordato Micha Ullman, a sua volta vincitore dell’Israel Prize per la scultura, mentre Dani Karavan, un altro noto artista israeliano, ha dichiarato: “Kadishman non è solo ‘Kadishman’, ma anche una parte di me. Ci conosciamo sin dall’infanzia e siamo stati anche anche vicini di casa, non solo amici. Era un grande uomo, proprio un ‘mensch’ come si dice in yiddish. Aveva un grande cuore ed era sempre attivo”. Per poi aggiungere: “Di solito non metto sculture di altri nelle mie opere, ma quando ho progettato la Piazza Habima a Tel Aviv ho voluto farlo, ed è stata una gioia per entrambi”.
Benner Katz, pittore, illustratore e scrittore israeliano, che di Kadishman era amico sin dall’adolescenza, ha voluto sottolineare come non si fermasse mai: “Anche quando era malato, dipingeva. Nella sua vita ha sempre lavorato, le sue mani non erano mai ferme”.
Ed era stato così anche da ragazzo, come quando, tra il 1950 e il 1953, aveva lavorato come pastore sulla Kibbutz Ma’ayan Baruch: un’esperienza con la natura e le pecore che ha poi avuto un impatto significativo sulla sua successiva produzione artistica e su tutta la sua carriera. La prima grande apparizione di pecore nel suo lavoro è stata proprio alla Biennale di Venezia, dove Kadishman presentò un gregge di pecore che colorava man mano, come un’opera di arte vivente. Nel 1995 ha iniziato a dipingere ritratti di pecore, a centinaia, ognuno diverso dall’altro. Opere immediatamente riconoscibili che divennero il simbolo della sua opera. In un’intervista di pochi anni fa ricordava: “Sono stato associato a vari movimenti artistici, ma sono sempre rimasto autonomo e indipendente. Sono stato influenzato da mille cose diverse, dalla terra degli indiani come da un bucato steso a Mea Shearim. Ma alla fine io sono la stessa persona, ogni giorno, quando mi alzo la mattina. L’arte non deve inventare qualcosa di nuovo ogni giorno”.
Michael Sierra
(10 maggio 2015)