Il segreto di Yehoshua: “Tutto comincia da una scintilla”
Un’arpista. La volontà di vivere di musica e l’impossibilità di farlo in patria, in Israele. Il viaggio alla riscoperta delle origini, di Gerusalemme, per occuparsi della casa dell’anziana madre, mentre lei sperimenta la vita in una casa di riposo vicino al figlio, a Tel Aviv. E soprattutto, quella che Abraham B. Yehoshua definisce “la scintilla”, ovvero la volontà, la determinazione, a non avere figli.
Così uno dei grandi decani della letteratura israeliana anticipa a Pagine Ebraiche i sapori del suo nuovo libro, che uscirà il prossimo autunno, in Italia per i tipi di Einaudi.
Perché ognuno dei volumi che in cinque decenni, a partire dagli anni Sessanta, hanno cantato le storie di Israele, è cominciato da una scintilla, un’idea, uno spunto: in questo ultimo caso quello che in uno dei paesi sviluppati a più alto tasso di natalità, molti definirebbero un anti-sogno.
“Ho un nipote, professore di successo in America, sposato, che d’accordo con la moglie non vuole avere figli. Questa scelta in famiglia è sempre stata oggetto di grande interesse e desiderio di capire. Quali possono essere le motivazioni alla base di una decisione simile? Nel romanzo cerco di trovare una risposta” spiega Yehoshua. Alla protagonista quarantaduenne della nuova storia, questa volontà costerà cara: la fine di un matrimonio di vero amore, con il marito che, di altro avviso rispetto alla musicista, le chiede di divorziare. Ancora una volta è la famiglia la cifra fondamentale dell’opera dello scrittore nato a Gerusalemme nel 1936, quinta generazione sabra da genitori di origine sefardita. Un fattore che, secondo Yehoshua, rappresenta anche il segreto del suo successo in Italia, con cui conferma un legame molto speciale. “L’Italia è senza dubbio il paese al mondo in cui i miei libri sono accolti meglio, un fenomeno che penso non riguardi solo me, ma molti miei colleghi scrittori e artisti israeliani. Mi sono interrogato a lungo sulle possibili motivazioni. La conclusione a cui sono arrivato è che la ragione risieda nel fatto che anche per gli italiani, come per gli israeliani e in particolare per me e le mie narrazioni, sia la famiglia la chiave attraverso cui interpretare il mondo, a differenza per esempio che in Francia dove è il rapporto tra uomo e donna, e in Gran Bretagna dove è la lotta fra classi”, rivela Yehoshua. Lo scrittore però sottolinea come il feeling speciale con la Penisola abbia impiegato qualche tempo a prendere forma.
“Negli anni Sessanta e Settanta, l’Italia non era particolarmente interessata alla cultura israeliana. Ricordo che i miei primi due libri furono rifiutati dagli editori. Le cose cambiarono radicalmente dopo la guerra del Libano all’inizio degli anni Ottanta, quando si iniziò a percepire come esistessero artisti molto critici nei confronti del governo cui si voleva offrire supporto e riconoscimento. E così l’atmosfera è cambiata”.
Per Roma in particolare l’autore ammette un amore profondo. La città è diventata la meta preferita di ogni viaggio. Tra gli aneddoti, Yehoshua ricorda alcune settimane trascorse nella Capitale ai tempi della seconda Intifada per tenere un corso all’università. “Decisero di assegnarmi la scorta. Non ne capii davvero il motivo, la mia percezione era che fosse tutto tranquillo. Però ricordo che il mio amico critico letterario Pietro Citati diede a me e mia moglie un elenco di chiese e luoghi da visitare e i poliziotti che venivano con noi erano spesso pieni di ammirazione quanto noi per siti di cui nemmeno loro conoscevano l’esistenza. Senza contare come tutti apprezzassimo il fatto di non avere mai problemi di parcheggio”, conclude sorridendo. Lo scrittore descrive Roma “un poco simile a Gerusalemme”, per via della sua bellezza “selvaggia”, una moderna città ai cui angoli spuntano resti e testimonianze antiche di duemila anni.
La Storia con la S maiuscola per Yehoshua rimane un filo rosso irrinunciabile, in particolare quella ebraica, che nei suoi romanzi ha esplorato in molte diverse angolature. Come accade ne Il Signor Mani (Mondadori, 2005), che per definisce senza esitazioni la sua opera più importante: “Cinque differenti personaggi in cinque differenti momenti, che rappresentano i bivi della storia ebraica e sionista, andando dal presente al passato. È stato il libro che ha segnato l’invenzione di una tecnica narrativa per me essenziale, il concetto di dialogo mancante, in cui di ciascuna conversazione è presentata una sola voce, lasciando l’altra all’immaginazione del lettore”. Non sorprende dunque che, tra le influenze fondamentali per il suo lavoro, l’autore citi l’americano William Faulkner “che mi ha aiutato ad affinare il concetto di monologo interiore”, insieme al gigante delle parole d’Israele Shmuel Yosef Agnon “che per me, come per molti miei colleghi ed amici, Amoz Oz, Aharon Appelfeld, rappresenta il padre letterario, anzi meglio ancora, il nonno, vista che appartiene a due generazioni precedenti alla nostra”. E dire che storie e parole avrebbero potuto giocare tutt’altro ruolo nella vita di Yehoshua, che svela a genesi della sua carriera di scrittore, tutt’altro che programmata. “Volevo diventare un avvocato, mi piaceva l’idea di discutere, di confrontarmi con gli altri. Ai tempi dell’università però scrivevo brevi racconti da leggere alle feste di classe. Percepire l’apprezzamento dei miei amici, soprattutto di fronte ai pezzi più umoristici, fu ciò che mi convinse. Fu grazie alle loro reazioni ai miei testi che compresi il potere della scrittura e, ancor di più, dell’ironia. Così continuai”. Ingrediente essenziale del mestiere è per il romanziere la possibilità di lavorare nella quiete, lontano da tutti. “Nei miei 43 anni a Haifa ho avuto diversi luoghi in cui scrivere: l’università, l’appartamento in cui prima di morire abitava mia suocera… Da quando un paio di anni fa ci siamo trasferiti a Tel Aviv dove abitano tutti i nostri figli e nipoti, mi accontento di uno studio in casa. Ahimè non ci sono più problemi di bambini rumorosi che disturbano”. Il processo di creazione di un nuovo libro è lungo e complesso, e richiede una media di tre anni. Dopo la scintilla creatrice, arriva il momento di immaginare la struttura dell’intero romanzo, e poi di iniziare.
“Per le prime 15/30 pagine possono volerci mesi e mesi” puntualizza Yehoshua. Così come per tracciare il carattere del personaggio principale, di cui viene indagata ogni sfumatura psicologica.
“Mi trovo benissimo con Einaudi” conclude l’autore, rinnovando il suo amore per l’Italia negli elogi per il lavoro del suo editore, con cui ha pubblicato tutte le sue opere. “Forse dipenderà dal fatto che gli editor sono anche loro dei giovani scrittori. Per questo il feeling è ancora più profondo, ci capiamo davvero”.
Rossella Tercatin
Pagine Ebraiche maggio 2015
(12 maggio 2015)