Il genocidio degli armeni: un quadro d’insieme/5
Nelle memorie del suo segretario personale ad Abdul Hamid II è attribuita la volontà netta di perseguire una «politica di severità e di terrore contro gli armeni; in ragione di ciò decise di dare loro un colpo economico, impedendo che potessero commerciare e negoziare» (così secondo lo storico Vahakn Dadrian, nella sua monumentale «Storia del genocidio armeno»), con l’evidente fine di determinarne l’isolamento sociale, oltreché quello politico e civile. L’ondata di violenze preordinate colpì quindi in particolare modo i distretti di Bitlis, Diyabakir, Erzurum, Mamurel-ul-Aziz, Sivas, Trebisona e Van. In quei mesi migliaia di civili vennero assassinati, sia per mano dell’esercito ottomano che della cavalleria curda come anche per l’intervento predatorio di una parte della popolazione musulmana. Molti furono i morti nell’inverno tra il 1895 e il 1896.
I massacri proseguirono nel 1897, anno in cui il sultano dichiarò tuttavia la «questione armena» come definitivamente conclusa. Nella massa di morti che a quel punto si contavano, vi erano anche esponenti di rilievo delle organizzazioni politiche comunitarie locali, mentre altri erano fuggiti in Russia. Costantinopoli decretò la chiusura delle associazioni armene e impose un duro giro di vite nei confronti delle restanti organizzazioni politiche. Nel mentre si consumava questa mattanza collettiva anche altre minoranze anatoliche furono fatte bersaglio di violenze. I reparti di hamidié, infatti, si adoperarono contro gli assiri di Diyarbakir, Hasankeyf, di Sivas come di altre aree attigue. È impossibile determinare con certezza quanti morti procurò la prima ondata di massacri anti-armeni. Plausibilmente la cifra varia da un minimo di 80mila elementi a 300mila. Chi cercò di tenere i conti, per così dire, come il pastore tedesco Johannes Lepsius, indica in 88.243 gli assassinati, in 546mila i rifugiati, in 2.493 i villaggi distrutti. In almeno quattrocentocinquanta di essi l’intera popolazione cristiana fu costretta a convertirsi forzatamente. Non di meno, sempre secondo questa contabilità, seicentocinquanta chiese e monasteri furono profanate. La metà di esse fu trasformata in moschee. A questi numeri, Lepsius aggiunge circa centomila armeni che morirono nel corso del tempo per le violenze subite, così come per la carestia che ne derivò, del pari alla fame e agli stenti. L’ambasciatore inglese a Costantinopoli stima in almeno centomila i morti entro il dicembre del 1895. Non di meno, va ricordato che il periodo dei massacri continuò l’anno successivo. Fonti diplomatiche, consolari e politiche, come la voce di Ernst Jäckh, già sostenitore dell’alleanza strategica tra Impero ottomano e Germania guglielmina, buon conoscitore della Turchia, agente della Nachrichnstelle für den Orient, struttura operativa collegata al ministero degli Esteri tedesco, con l’obiettivo di destabilizzare i possedimenti coloniali inglesi, a sua volta ritiene che in quei mesi duecentomila armeni fossero stati assassinati, cinquantamila ridotti a profughi e un milioni depredati, pressoché integralmente, dei loro averi. Tra le diverse voci che documentarono le atrocità commesse nel volgere di alcuni mesi si aggiunge quella del diplomatico francese Pierre Renouvin, il quale stimava i morti nella cifra complessiva di duecentocinquantamila. A questa macabra contabilità va senz’altro aggiunta la cifra di venticinquemila appartenenti alla minoranza assira a loro volta assassinati. L’eco internazionale non si fece peraltro attende, se non altro poiché le violenze e gli omicidi di massa si erano consumati a cielo aperto, sotto gli occhi degli osservatori stranieri. Così in Europa come negli Stati Uniti, dove alla prese di posizione degli organismi politici si alternavano le accuse delle organizzazioni non governative. Gli uni e le altre documentavano nel mentre, con relativa precisione, quanto si stava consumando, indicando le responsabilità del governo di Costantinopoli, il coinvolgimento delle amministrazioni pubbliche, la licenza di massacro attribuita ad una parte della società musulmana contro le minoranze cristiane. Soprattutto, quest’ultimo elemento colpiva l’attenzione degli osservatori. Si denunciava la volontà di arrivare ad una comunità nazionale nella quale la presenza cristiana sarebbe stata annichilita se non cancellata definitivamente. Già nel settembre del 1895 il New York Times parlava apertamente di «olocausto armeno». Non di meno, una parte dei gruppi dirigenti occidentali si dispose nel senso di un intervento a protezione degli armeni – o quanto meno finse di volersi muovere in tale direzione. Così re Leopoldo II del Belgio, peraltro di per sé implicato in una criminale guerra coloniale in Africa, nel Congo, che interrogò il primo ministro britannico Robert Gascoyne-Cecil sull’opportunità di un intervento militare per occupare e proteggere l’”Armenia”.
Gli americani furono non da meno, inserendo la questione dei massacri nell’agenda della discussione politica federale. Benché queste ed altre considerazioni non si traducessero, alla resa dei conti, in azioni concrete, quanto meno non nei termini di opzioni politiche ufficiali, la «questione armena» andava ora assumendo una dimensione e delle connotazioni che la sottraevano alle sole dinamiche balcanico-anatoliche per divenire un terreno di confronto internazionale. La Croce rossa americana, ad esempio, intervenne ripetutamente, anche grazie alla donazione di denari da parte di privati e alle ripetute raccolte di fondi, alimentando l’attenzione di una parte dell’opinione pubblica su quanto stava avvenendo. Rimane il fatto che le cronache del tempo descrivono e restituiscono con precisione di fatto alla collettività europea e statunitense l’intero disegno delle violenze hamidiane. Con l’inizio del 1896 se ne ha piena e pubblica cognizione, in buona sostanza. A tal punto che, ancorché tardivamente, Abdul Hamid II interviene per censurare le abbondanti corrispondenze. Il tentativo di mettere la mordacchia alla stampa straniera, tuttavia, non raggiunse l’intento sperato. Peraltro furono le “eccedenze” impreviste, rispetto al piano preordinato delle violenze contro gli armeni, a sollevare le critiche più accalorate. Quando reparti regolari delle truppe ottomane uccideranno dei missionari francescani in un villaggio nei pressi di Marash (oggi conosciuta come Kahramanmaras, nella Turchia meridionale) le voci polemiche si alzeranno di tono. E tuttavia, in questo come negli altri casi, non si andrà mai oltre l’esecrazione, tradottasi in proteste secche formali senza però nessun seguito. A fronte delle denunce, e della condivisione di esse da parte della stampa, della pubblica opinione e degli stessi governi occidentali, l’inanità sembra essere quindi la concreta linea di condotta. Nei fatti, nessun paese occidentale è disponibile ad uno scontro diretto con la Sublime Porta, la cui capacità di reazione non è per nulla sottovalutata. Spingono contro tale soluzione soprattutto i tedeschi e i russi.
I primi come i secondi temono che da ciò possa derivare un tracollo del pencolante Impero, con il rischio che alla politica di intromissione e di sottrazione di territori, perseguita da San Pietroburgo, si sovrapponga la disintegrazione della giurisdizione ottomana e, quindi, la nascita di Stati indipendenti, tra i quali la stessa paventata Armenia. Gli inglesi e i francesi calcolano, a loro volta, quale possa essere la politica più appropriata per beneficiare pro domo propria delle difficoltà in cui Costantinopoli annaspa sempre più spesso. Il «grande malato d’Europa», in altre parole, si sa bene quanto sia destinato ad un esito terminale, prima o poi. Ma non si intende accelerarne le convulsioni, con il rischio di deflagrarne l’intera struttura, disintegrando le sue ramificazioni e dando spazio a spinte centrifughe che le singole comunità nazionali vanno manifestando sempre più ripetutamente. Nel 1896, quindi, i massacri proseguono nelle province di Mush, Aleppo, Van e Adana. Le risposte che arrivano dalle comunità armene variano dall’impotenza all’auto-organizzazione difensiva. In alcuni distretti si sono ormai organizzati gruppi armati, a vario titolo associati o affiliati ai nascenti movimenti politici nazionalisti. In genere, alle ondate distruttive della cavalleria curda, alle razzie di bande e alle prevaricazioni sistematiche delle truppe ottomane le uniche isole di salvezza sono quelle in cui si trovano insediamenti di cittadini stranieri o delegazioni occidentali. Gli uni e le altre, per il fatto stesso di essere presenti (e testimoni), esercitano infatti una protezione indiretta, impedendo agli aggressori di portare a termine i crimini più efferati. Ma con la fine di quell’anno, l’assassinio di quasi un paio di centinaia di migliaia di armeni, la conversione forzata di un grande numero di essi, il rapimento delle donne e dei minori, forzatamente tradotti negli harem o ridotti alla schiavitù, sarà fatto compiuto. Così come la distruzione di un grande numero di attività economiche, soprattutto nell’Anatolia orientale, dove una parte cospicua della popolazione trasmigrerà verso la Transcaucasia, l’Europa e gli Stati Uniti, alimentando una diaspora di lunghissima durata. In questo quadro di devastazioni materiali, di crimini di massa ma anche di polemiche e accuse senza effetto come di sostanziale indifferenza, si inscrive la vicenda dell’assalto e dell’occupazione della Banca ottomana, a Costantinopoli, il 26 agosto 1896. Nel tentativo di attirare l’attenzione collettiva sui pogrom in atto, ventotto componenti di un gruppo d’azione della Federazione rivoluzionaria armena (il Partito Dashnak) irrompono armati nella sede del grande istituto di credito tenendolo in pugno per più di mezza giornata. Una decina di loro viene uccisa, insieme a diversi soldati ottomani. La reazione delle autorità non si fa a sua volta attendere, intensificando le violenze contro i civili, fatto che arriva a causare altri seimila morti. L’obiettivo di raccogliere ulteriori attenzioni da parte della stampa mondiale e delle cancellerie viene in parte raggiunto, poiché si inizia a parlare di Abdul Hamid II come di un «sultano sanguinario» e di un «grande assassino». La pressione affinché vengano introdotte riforme si fa ancora più assillante ma si inquadra dentro una dinamica politica precostituita, dove ciò che arriva dall’esterno è visto dai turchi come manifestazione di una indebita intromissione nella propria sfera di autodeterminazione. Fatto che consolida consenso dietro alle scelte imperiali, queste ultime dettate essenzialmente da due consapevolezze: la necessità di cementare il consenso della pubblica opinione intorno ad un capro espiatorio, denunciando l’isolamento subito come prodotto di un complotto internazionale; la cognizione che, al di là delle enunciazioni di principio e della retorica di circostanza, gli avversari dell’Impero non si sarebbero spesi più di tanto per tutelare una minoranza che era intesa, da tutti, come una pedina da giocare insieme ad altre, senza troppe cautele né, tanto meno, inibizioni di sorta. Un conto era il denunciare ad alata voce, ben altro discorso era l’apprestarsi al fare concretamente qualcosa. L’aspettativa comune era che l’Impero declinante implodesse, prima o poi, liberando risorse e territori di cui altri si sarebbero avvantaggiati. È anche in ragione di ciò, pertanto, che dopo la lunga fase di violenze hamidiane, a fronte di una parabola politica discendente che sembrava essere divenuta inarrestabile e che coinvolgeva le minoranze perseguitate, così come una maggioranza che tuttavia temeva di essere chiamata, ben presto, a pagarne i conti, che si determinano fatti inediti. Già in età costituzionale, ossia fino al 1876, anno dell’approvazione della Costituzione, poi dismessa da Abdul Hamid II, si era infatti sviluppato un movimento, quello dei «Giovani ottomani», composto da élite modernizzanti ispirate ai principi liberali mutuati dal dibattito europeo. La loro esistenza era stata fortemente condizionata dall’acceso conservatorismo del nuovo sultano che ne aveva decretato – instaurando un regime tradizionalista e liberticida – la clandestinità prima e la scomparsa poi. In assenza di uno spazio politico nel quale esercitare un ruolo, prima ancora che per le repressioni e le persecuzioni, i gruppi modernisti non avevano trovato concreta possibilità di dare seguito ai loro progetti. Era tuttavia evidente, a chiunque riconoscesse la natura del mutamento geopolitico che stava investendo i Balcani, il Mediterraneo e i territori dell’Asia nei quali era ancora insediato l’Impero, che una politica di pura conservazione, basata sull’asprezza dei modi e sulla brutalità dei mezzi, non potesse offrire altro che non fosse il suo fiato corto. Con la fine dell’Ottocento, in concomitanza con le persecuzioni contro la minoranza armena e i rivolgimenti in atto un po’ in tutti le aree periferiche, il progetto che era già stato di quel gruppo viene ripreso, ora, da coloro che sarebbero stati conosciuti come «Giovani turchi» (Genç Türkler, altrimenti detti Yeni Türkler oppure, ancora, Jön Türkler). L’ispirazione è dichiaratamente mazziniana, rifacendosi a quella miscela di riforma politica, repubblicanesimo, trasformazione sociale e mutamento culturale che stava all’origine del pensiero de politico italiano. Più nello specifico, il programma politico del movimento è di abbattere l’autocrazia dominante, porre dei limiti all’inefficienza e alla corruzione dilaganti, istituire quanto meno una monarchia costituzionale e, sul modello di altre esperienze nazionali, trasformare l’esercito da strumento di auto-affermazione e prevaricazione del sovrano ad ossatura di una moderna amministrazione pubblica. L’ideologia di fondo, basata sul positivismo, mischiava nazionalismo a liberalismo, centralismo a laicismo. Il movimento, noto alle cronache anche come Comitato dell’Unione e Progresso (İttihat ve Terakki), sorge a Salonicco e in origine comprende prevalentemente intellettuali, reclutati spesso nelle società segrete degli studenti universitari progressisti, nonché ufficiali dell’esercito ibridatisi con il mondo occidentale. L’incontro tra queste due ‘anime’ dà l’impostazione di fondo all’organizzazione clandestina, concretamente sospesa tra modernismo, pedagogismo e un sostanziale autoritarismo. Elemento, quest’ultimo, che emergerà con il passare del tempo, fino a divenire il tratto dominante. La spinta ideale del movimento di Unione e Progresso parte comunque dal riconoscimento dell’inderogabilità della ribellione al regime del sultanato. Quest’ultimo considerato non solo corrotto e reazionario ma oramai incapace di servire gli interessi della collettività ottomana. L’obiettivo principale del Comitato è quello di eliminare l’intelaiatura teocratica, basata sulla legge islamica, inserendo nella realtà turca le idee occidentali nate dalla Rivoluzione francese, e fatte proprie, nel corso dell’Ottocento, in Europa, dai movimenti nazionalistici. Il reclutamento di base avviene a partire dalle regioni occidentali ed europee dell’Impero, ossia in quei territori che possono vantare maggiori scambi con le culture politiche e le correnti ideali espressi nel Continente. Diverso è da subito, invece, l’atteggiamento molto più tradizionalista di quanti provengono dall’Anatolia. Il cosmopolitismo dei primi, infatti, si scontra con le resistenze dei secondi. In generale, rimane il fatto che che il Comitato è un insieme composito di diverse ispirazioni, accomunate dall’avversione verso il potere costituito, identificato come l’agente del declino. Questa eterogeneità culturale, ideologica e politica avrà un peso determinante nelle diverse configurazioni assunte dai Giovani turchi quando, a partire dal 1908, essi assumeranno progressivamente il potere.
Claudio Vercelli, storico
(17 maggio 2015)