Il futuro degli ebrei in Germania
Essere ebrei in Germania oggi, riscoprire la propria identità, fare i conti con la Storia, riappropriarsi della lingua tedesca: questi i temi affrontati nella suggestiva cornice della libreria-bistrot Bardotto di Torino con la scrittrice di origine ucraina e tedesca d’adozione Katja Petrowskaja, reduce dal successo di “Forse Esther” (ed. Adelphi), e durante il dibattito organizzato dalla redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane con il confronto tra lo storico e politologo Gian Enrico Rusconi (Università di Torno), il giornalista, collaboratore ed ex redattore di Pagine Ebraiche Manuel Disegni (della Humboldt Universität di Berlino) e la redattrice di Pagine Ebraiche Francesca Matalon sul tema “Germania, ferita aperta e nuova casa degli ebrei d’Europa”.
Vincitrice del prestigioso premio per opere inedite “Ingeborg Bachmann”, Petrowskaja si è raccontata al germanista Luigi Forte, facendo luce sugli impulsi che l’hanno spinta a scrivere un libro dedicato alla riscoperta delle proprie origini ebraiche e al suo amore viscerale per la lingua tedesca: “Sono molto interessata a come lo leggono gli altri e come interpretano il mio libro – racconta l’autrice – i lettori hanno in fin dei conti il mio stesso diritto a dare una loro spiegazione all’intera vicenda. C’è chi vede il libro come la riscoperta dell’identità ebraica ma la verità è che io faccio parte di una generazione che non aveva la minima idea di cosa significasse essere ebrei. Per noi l’identità consisteva in una sfilza di cimiteri ebraici”. Luigi Forte evidenzia come la profondità di Petrowskaja unita alla solida documentazione, sia accostabile all’opera del celebre Winfried Sebald: “Riassumerei l’autrice – aggiunge Forte – come una donna che scrive in tedesco, pensa in russo e cerca le sue radici ebraiche”.
“Forse – continua Petwoskaja – ho raccontato quello che molti hanno inventato: c’è una ricerca, una saga famigliare, una cornice storica; eppure tutto ciò che ho scritto è la pura verità”. Tra i diversi personaggi che si muovono tra le pagine, la babushka, la nonna, Rosa, il nonno Vasilij, lo zio rivoluzionario Judas e poi il destino della bisnonna Esther, uccisa nel massacro di Babji Jar del 1941: “Perché ho aggiunto quel ‘forse’ davanti a ‘Esther’? – chiede al pubblico – La mia bisnonna è stata uccisa per strada e quando ho riscoperto la storia ho chiesto a mio padre come si chiamasse. Lui però non lo sapeva e mi arrabbiai molto: possibile non sapesse il nome di sua nonna? Si giustificò spiegandomi che l’aveva sempre sentita chiamare ‘babushka’, nonna in russo. A questo punto avevo tra le mani la storia di una persona reale che però non sapevo con sicurezza come si chiamasse. Aggiungere quel ‘forse’ nel titolo mi è sembrata la soluzione più naturale e coerente rispetto alle scelte operate nel mio libro”.
A fare da collante e ad essere l’elemento fondante dello stile di Petwoskaja è poi la scelta della lingua tedesca, contrassegnata da un amore profondo che la porta, anche durante l’incontro, a voler cesellare le frasi e ricercare forsennatamente la parola giusta ed evidenziata dalla redattrice di Pagine Ebraiche Francesca Matalon che legge un passaggio di “Forse Esther” nel quale spiega come mentre suo fratello imparava l’ebraico, lei si avvicinava irrimediabilmente al tedesco sentendo dentro di sé di affondare le mani dentro la terra, fino alle radici.
E a proposito di Germania e radici, il giornalista Manuel Disegni interroga Rusconi sul futuro degli ebrei in Germania: “Persiste ancora nel mondo ebraico – spiega Disegni – l’immagine di una Germania terribile che più o meno inconsciamente riduce la storia dell’ebraismo tedesco al suo tentativo di annientamento. La realtà è più complessa: l’ebraismo tedesco è stato per secoli fondamentale nello sviluppo culturale del paese e la stessa filosofia tedesca ha ispirato gli ebrei in un rapporto osmotico e di scambio reciproco. Ora che la comunità sembra rifiorire, ci è giunta l’incredibile notizia che qualche tempo fa la polizia che presidia le sinagoghe ha dovuto fare irruzione per placare una rissa tra consiglieri della comunità ebraica: se la litigiosità indica l’alto tasso di vitalità dell’ebraismo possiamo davvero dire di aver ricevuto buone notizie”. Continua Disegni: “Quando chiesero ad Heinz Galinski, lo storico presidente della Zentralrat der Juden in Deutschland (un omologo tedesco dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) che ricostruì l’ebraismo tedesco dopo la Shoah, se fosse possibile vivere felicemente in Germania rispose che vivere era possibile ma non sapeva se felicemente. Dunque mi chiedo la ferita è ancora aperta?”. A rispondere il professor Rusconi: “Rispondo citando l’attuale presidente della Zentralrat der Juden in Deutschland Josef Schuster, nato a Haifa ma trasferitosi in Germania, che in una intervista ha invitato gli ebrei tedeschi a vivere serenamente e si è espresso contrario alla posizione del premier israeliano Benjamin Netanyahu che invitava gli ebrei d’Europa a trasferirsi in Israele dopo i fatti di Parigi. Quella che c’è in Germania non è una ferita aperta ma una cicatrice profonda e incancellabile. Il paese lo sa e si batte con costanza per non dimenticare. Mi lascia esterrefatto però il sentimento nazionalista che sta riemergendo e che osanna Bismarck richiamando l’idea della grande e potente nazione. Quando assisto a questi rigurgiti mi sento come un amante tradito”.
“L’antisemitismo tedesco del ‘900 lascia basiti, – continua Rusconi – penso per esempio ai Quaderni neri di Heidegger appena riemersi nei quali diceva che la Shoah era stato ‘l’auto-annientamento degli ebrei’. La verità è che per capire come si è arrivati a questo punto bisogna tornare all’Illuminismo tedesco come sottolinea la scuola di Francoforte fondata da Adorno. Tutto è iniziato da lì”. Disegni fa poi riferimento a un articolo recentemente pubblicato sul giornale ebraico torinese Ha Keillah nel quale si denunciano nuovi casi di antisemitismo (la maggior parte avvenuta durante l’ultimo conflitto di Gaza) in Germania resi attraverso la metafora “L’argenteria dei tedeschi”, un odio contro gli ebrei che viene riposto in un cassetto, magari diventato opaco ma che persiste. “Sicuramente un attacco di antisemitismo in Germania ha un risvolto molto più pesante – spiega Rusconi – ma la verità è che il problema consiste in questa sovrapposizione tra Israele ed ebraismo, sembra evidente come la formula ‘io critico Israele ma amo gli ebrei’ non stia funzionando. Finché non sciogliamo questo nodo non ci sarà una soluzione concreto”.
E se da una parte c’è chi lancia l’allarme, cresce vertiginosamente il numero degli ebrei e soprattutto gli israeliani che vanno a vivere a Berlino per i motivi più diversi. Dal pubblico Angelica Edna Calò Livne dell’associazione Beresheet LaShalom spiega per esempio come suo figlio suo andato lì per sviluppare la sua carriera artistica: “Berlino oggi è il centro dell’arte mondiale e gli israeliani sono all’avanguardia”, per Rusconi è “un ritorno a casa, perché la Germania senza ebrei non è la Germania”.
A concludere, evidenziando il legame indissolubile tra ebrei e Germania, il direttore della redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Guido Vitale: “Durante le persecuzioni naziste un giornalista andò a intervistare gli esuli tedeschi per sapere se avevano nostalgia della Germania: Thomas Mann rispose di no perché la Germania si trovava dove lui si trovava. Lo scrittore Erich Maria Remarque invece disse: Non ho nostalgia della Germania perché in fin dei conti io non sono ebreo”.
Rachel Silvera twitter @rsilveramoked
(18 maggio 2015)