Periscopio – La Storia di Calimani

lucrezi Ho letto con grande interesse l’estratto del libro di Riccardo Calimani, Storia degli ebrei italiani nel XIX e nel XX secolo, pubblicato sul numero di maggio del giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche, dedicata alle tragiche vicende delle Comunità ebraiche nel ventennio fascista, che vide gli ebrei italiani prima illusi e poi schiacciati da un regime in cui molti di loro, in buona fede, avevano creduto.
Credo che nessuno possa giudicare, col senno di oggi, gli atteggiamenti di coloro che, messi spalle al muro dai rozzi ultimatum del Duce (“decidersi! italiani o ebrei?”), cercarono, invano, di blandire il cinico dittatore, profondendosi i giuramenti di fedeltà e italianità, annichilendo sempre più la loro identità e le loro origini, e dissociandosi rumorosamente dagli ebrei ‘cattivi’, ‘internazionalisti’, ‘disfattisti’ e, soprattutto, sionisti.
Spesso, laddove la storiografia non arriva – ossia nel cuore segreto degli uomini, nei loro tormenti interiori, nelle loro miserie e grandezze, nelle viltà e negli erosimi -, è proprio la narrativa che può aiutare a comprendere il senso profondo di ciò che è stato, o che avrebbe potuto, invece, essere. E c’è un romanzo, purtroppo poco conosciuto, che restituisce un quadro affascinante e doloroso degli ambienti e degli anni oggetto della ricostruzione di Calimani. Mi riferisco al libro, pubblicato nel 1974, “Un ebreo nel fascismo”, scritto da Luigi Preti, intellettuale prolifico e versatile, la cui notorietà è legata soprattutto alla fortunata carriera politica (sfuggito alla condanna a morte del Tribunale militare fascista, nel 1941, per attività sovversive, fu membro dell’Assemblea Costituente, poi a lungo parlamentare, nelle file del Partito Socialdemocratico, e più volte Ministro della Repubblica), ma che è stato anche, o soprattutto, un raffinato filologo, lucido giornalista ed eccellente romanziere (autore, per esempio, oltre alla già citata opera, anche del romanzo “Giovinezza giovinezza”, Premio Bancarella 1965, anch’esso ambientato negli anni del regime).
Il protagonista di “Un ebreo nel fascismo” è un giovane idealista e di talento, Oberdan Rossi, spinto a credere nel fascismo soprattutto dalla cieca fedeltà mussoliniana del padre, completamente soggiogato dalle figure di Mussolini e di D’Annunzio, il poeta soldato, entrambe oggetto di incondizionata adorazione. Durante la guerra in Etiopia, di fronte alle atrocità delle truppe di occupazione, il combattente Oberdan vede incrinare la sua fede nel regime, senza tuttavia arrivare a rinnegare la personale fiducia nel Duce. Ma poco dopo, innanzi al rapido, inesorabile montare della micidiale propaganda antisemita, sente stringersi intorno a sé una sinistra coltre di freddo e di solitudine, vedendosi diventare, giorno dopo giorno, straniero in patria, nel lavoro, nella famiglia (il suo era stato un matrimonio misto). Con le leggi razziali, infine, la sua parabola calante sarà completa, e nessuno lo salverà dalla più cupa disperazione e da un tragico destino.
Quanti ebrei italiani avranno davvero condiviso le vicende e le angosce di Oberdan Rossi? Certamente molti. E a tutti loro, anche a coloro che, fino all’ultimo, fecero il tragico errore di aggrapparsi alla macabra maschera del loro tiranno, va la nostra umana solidarietà e compassione. Sul piano storico, una cosa emerge però con chiarezza, tanto dalle pagine storiografiche di Calimani quanto da quelle romanzate di Preti: il primo bersaglio della propaganda e poi della persecuzione fascista fu il sionismo, visto come ‘prova del nove’ dell’infedeltà degli ebrei, servitori di ‘due patrie’ e quindi traditori. Erano i sionisti gli ‘ebrei al cubo’ che Mussolini odiava e temeva, mentre cercava in ogni modo di ‘italianizzare’, ossia ‘fascistizzare’ gli altri. In questo, Mussolini aveva ragione. I ‘veri ebrei’, gli ebrei ‘autentici’ erano loro, i sionisti, interpreti, in quanto tali, non solo del sogno di Theodor Herzl, ma anche di quello di Abramo e di Mosè. Bisognava, perciò, cominciare con loro; ma non certo per fermarsi a loro.
Una lezione su converrebbe, ancor oggi, riflettere.

Francesco Lucrezi, storico

(20 maggio 2015)