J-Ciak – Se Joyce arriva a Haifa
Prendete l’Ulisse di Joyce, ignorate Dublino e portatelo a Haifa. Su e giù per la scalinata che dal Carmelo conduce al porto su un tappeto sonoro di gabbiani, sirene di rimorchiatori, cellulari, chiacchiere e radio. A tentare l’esperimento è Elad Keidan, giovane regista israeliano che porta a Cannes “Hayored Lemala – Afterthought”, in concorso per la Caméra d’or. In questo primo lungometraggio Keidan, che nel 2008 aveva vinto il premio Cinéfondation per il corto “Anthem”, mette in scena una commedia esistenziale che intreccia due vite e un’infinità di emozioni e sentimenti. Il risultato è un notevole flusso di coscienza che, anche se i risultati hanno fatto discutere, deve molto al protagonista joyciano, l’ebreo irlandese Leopold Bloom.
Al centro di “Afterthought” ci sono Moshe e Uri, entrambi interpretati da due attori israeliani piuttosto noti, Itay Tiran (“Lebanon” e “Forgiveness”) e Uri Klauzner (“Kadosh,“ “Kippur“). Moshe è un insegnante di mezza età che vive grazie ai proventi di cavallucci meccanici per bambini posti davanti ad alcuni negozi e patisce le conseguenze di un tragico incidente del passato. Uri, che tanti anni prima è stato suo alunno, è uno scrittore, ha appena rotto con la ragazza e medita di lasciare Israele per non essere richiamato dall’esercito. Uno scende la scalinata, l’altro sale. Pensieri e sogni si dipanano, cose da nulla accadono e i due si incontrano. Scambiano poche parole e ognuno riprende la sua strada, per poi cambiare rotta.
Il ripensamento evocato dal titolo – che in ebraico allude invece all’atto di scendere – non si traduce in svolte drammatiche. A spiegarne il senso è un ortodosso, che verso la fine del film spiega come sarebbe assai meglio poter lasciare un messaggio nella segreteria telefonica dopo aver parlato con qualcuno, non prima. Si potrebbero così dire cose che nella chiamata non si è riusciti a esprimere. La verità, è la conclusione, è tutta qui, nel pensiero che arriva dopo.
“Afterthought” è un film denso di poesia e senza storia, che rischia di deludere chi ama azione e storytelling a tinte forti. E c’è da chiedersi che genere di riscontro potrà trovare all’estero un lavoro così profondamente legato al mondo e alla mentalità israeliana, così traboccante di rimandi alla sua vita e persino alla sua colonna sonora di tutti i giorni. Non ci sono però dubbi sul fatto che il regista Elad Keidan si candida con questo lavoro a un ruolo di rilievo nel nuovo cinema israeliano.
Daniela Gross
(21 maggio 2015)