Qui Cannes – Il trionfo di László Nemes
“Un capolavoro”. Questo il commento unanime con il quale viene accolto “Il figlio di Saul”, opera prima del regista ungherese László Nemes, vincitore del Grand Prix della Giuria del 68° Festival di Cannes. Ambientato nell’autunno del 1944 ad Auschwitz, il film ripercorre il dramma di Saul Ausländer, prigioniero membro del Sondekommando (il gruppo di ebrei costretti a collaborare con le SS naziste che si occupava della rimozione dei cadaveri delle camere a gas) incaricato di bruciare le vittime del lager, che ritrova il corpo di quello che crede essere il proprio figlio. Questo il nodo dal quale inizia il calvario di un padre che tenta di dare una sepoltura degna e cerca disperatamente un rabbino che possa occuparsi delle esequie. Acclamato dalla critica, il film ha conquistato anche il Vulcan Award, il premio di Cannes dedicato ai film indipendenti e il Fipresci, il riconoscimento della federazione dei critici cinematografici che in passato ha premiato registi come Jean-Luc Godard, Roman Polanski e Woody Allen.
Immensa soddisfazione per il trentottenne regista Nemes, che ha ricordato come in Ungheria il tema della Shoah sia ancora caldo e quanto sia stato importante per lui restituire un volto alle vittime del genocidio perpetrato dai nazisti: “Quale metafora migliore se non quella di un figlio come simbolo delle vittime della Shoah?”, ha dichiarato spiegando poi come abbia voluto concentrarsi su un particolare drammatico come quello degli ebrei del Sonderkommando (quello che Primo Levi identificò come “il crimine più demoniaco del nazionalsocialismo”) perché impressionato dalle storie raccontategli dai suoi genitori. L’opera sconvolgente è stata definita dal New York Times: “Un inferno dentro l’inferno”.
A conquistare gli applausi è stato poi il protagonista, Géza Röhrig, esordiente di 48 anni dalla storia straordinaria: abbandonato in un orfanotrofio ungherese, è stato adottato da una famiglia ebraica ed è vissuto a Gerusalemme. A New York ha studiato inoltre in una yeshivah e si è avvicinato all’ebraismo hassidico dedicandosi alla poesia e scrivendo due opere sulla Shoah. Intervistato, Röhrig ha lanciato il proprio appello al The Guardian: “Non abbiamo imparato niente da Auschwitz, la crudeltà esiste ancora, penso al dramma dei curdi ma anche ad altri. Viviamo in un’epoca di incertezza. C’è un livello di caos altissimo intorno a noi. Non credo in chi pensa di vivere in una torre d’avorio. Una delle lezioni del 1944 è che non possiamo permettere che le cose semplicemente accadano”.
A rimanere nel cuore di questa ultima edizione di Cannes dedicata all’indimenticabile Ingrid Bergman è poi la giuria capitanata dai fratelli Joel e Ethan Cohen, presidenti e direttori artistici, vincitori di quattro premi Oscar: nati in una famiglia ebraica di Minneapolis, hanno affrontato le proprie radici anni fa con A Serious man, la storia di Giobbe contemporaneo che si riallacciava al mito ebraico del Dibbuk. Ad aiutare i due è spiccato poi tra i componenti della giuria Jake Gyllenhaal, attore d’autore che non disdegna kolossal e discende da una famiglia ebraica un poco radical chic di New York: “Sono entusiasta del mio ruolo a Cannes, non tanto per giudicare quanto per poter vedere film in anteprima e per giunta gratis!”, ha confidato ironicamente. Nella giuria della Settimana Internazionale della Critica anche Ronit Elkabetz che, con suo fratello Shlomi, si conferma essere una delle famiglie più interessanti del cinema israeliano fresca del successo di Gett, applaudito dal pubblico e candidato agli ultimi Golden Globes.
Cannes 2015 non è stato però solo un momento di competizione e tappeti rossi ma anche di prime visioni: esordisce infatti alla regia l’attrice israeliana e americana d’adozione Natalie Portman con la trasposizione di Una storia di amore e di tenebra, ispirato al romanzo dello scrittore israeliano Amos Oz e dedicato a sua madre, nel quale si intreccia la vicenda famigliare con il progredire della storia dello Stato ebraico. Il film, che è stato definito, “una lettera d’amore a Israele”, è stato giudicato dal The Guardian un debutto “fiducioso, sentito e sincero”.
Tra le proiezioni speciali, anche l’israeliano Elad Keidan, con il film “Hayored Lema’ala”, accostato all’Ulisse di James Joyce e protagonista dell’ultimo J-Ciak firmato da Daniela Gross e “Amy” di Asif Kapadia, il documentario dedicato alla giovane regina della musica inglese Amy Winehouse, morta nel 2011 a soli 27 anni, che cominciò a muovere i primi passi fondando una band che definì “la versione ebraica e bianca del gruppo hip-hop Salt-n-Pepa”.
Rachel Silvera twitter @rsilveramoked
(26 maggio 2015)