J-Ciak – Negli occhi di Saul
I riflettori della Croisette si sono spenti. Ma “Saul Fia – Il figlio di Saul”, nelle sale italiane il 27 gennaio, farà a lungo parlare di sé: al di là dal Gran Premio della Giuria assegnatogli a Cannes e persino dei suoi indiscussi meriti cinematografici. Il film di László Nemes, che narra l’esile e disperata storia di un Sonderkommando ad Auschwitz, ha l’effetto di scaraventarci in presa diretta dentro all’inferno del campo di sterminio. Facendoci vedere, per oltre due, in lunghi piani sequenza, solo ciò che vede il protagonista, l’ebreo ungherese Saul Auslander, addetto a spogliare i corpi destinati al crematorio.
Nemes evita con rigore gli stereotipi e la narrativa sentimentale prediletti da tanti film di Hollywood, attraverso una scelta formale di elevato valore morale. Ma non rischia di essere anche questo un modo, per quanto di segno inverso, di sfruttare la Shoah per fare spettacolo? Che bisogno c’è di un altro lavoro che ci racconti Auschwitz? Ed è davvero possibile rappresentare l’orrore?
Non sono domande nuove né facili, che suonano ancora più scomode davanti a un lavoro di grande valore artistico come quello di Nemes. Sono interrogativi che però in questi giorni serpeggiano fra i critici. A renderli ancora più stringenti è il recente arrivo sul grande schermo di “German Concentration Camps Factual Survey”, il documentario girato nei campi di sterminio nazisti nel 1945, subito dopo la liberazione.
Reso celebre dalla collaborazione di Alfred Hitchcock e commissionato dal ministro inglese Sydney Bernstein, il “German Concentration Camps Factual Survey” è rimasto negli archivi per settant’anni. Fino al restauro a opera dell’Imperial War Museum di Londra che ne ha consentito, un mese fa, la proiezione.
Quel girato, di cui il documentario di André Singer “Night Will Fall” ha da poco ricostruito la genesi e le sorti, ritrae in presa diretta l’orrore dei lager: filmando la sofferenza sui volti dei prigionieri da poco liberi, i cumuli dei corpi, i sacchi colmi di capelli, le baracche spoglie. Sono immagini durissime, così immediate da stringere il cuore. Spontaneo chiedersi, come del resto fa Singer, perché un documento di tale impatto sia rimasto così a lungo negli archivi.
Trent’anni più tardi, il grande affresco costruito da Claude Lanzmann in “Shoah” costruiva un autentico monumento alla Memoria, coniugando al valore documentale esiti estetici e drammatici altissimi. La sequenza densa, aspra e ritmata di “Shoah”, ha sostenuto qualcuno, ha completato la narrazione visuale della Shoah. Tema che, tornando indietro di alcuni decenni, aveva trovato risultati altissimi anche in “The Sorrow and the Pity” di Marcel Ophuls e in “Notte e nebbia” di Alain Resnais.
A giudicare da queste opere si direbbe che sull’argomento non esistano più parole e immagini meritevoli di prendere forma, perché ciò che conta è già stato espresso. Eppure da settant’anni la Shoah continua a essere raccontata, in modo sempre più ossessivo, al cinema come in letteratura.
Ha senso domandarsi come e fino a che punto sia giusto farlo. Ed è inevitabile sentirsi turbati, persino disturbati, dalla proliferazione di fiction che spesso hanno motivo d’essere solo nel traino commerciale e nulla aggiungono alla nostra coscienza o alla sensibilità collettiva.
Poi però ci troviamo davanti a lavori diversi, capaci di schiuderci una nuova visuale e di riempirla di altri significati. Certo, non basta l’arte a capire quello che è stato. Ma, chissà, forse è l’unico modo che ci è dato per tentare di raccogliere nel nostro limitato, umano, orizzonte l’orrore smisurato della Shoah. Lo sguardo potente e senza retorica de “Il figlio di Saul” può essere un aiuto prezioso per sostenerci lungo questa via.
Daniela Gross
(28 maggio 2015)