Setirot – L’angelo e la goccia
In quanti sanno che l’agricoltura del futuro, quella che già aiuta e soprattutto aiuterà il pianeta a sopravvivere, ha alle spalle una storia che pare un romanzo avventuroso e romantico? È vero che nell’ufficialità di ExpoMilano2015, nelle relazioni, nelle tavole rotonde, si rende merito a Israele di avere portato la propria esperienza nella tecnica di irrigazione a goccia e di avere realizzato il suo padiglione in funzione appunto di questa tecnica. Come è vero che il commissario del padiglione Elazar Cohen sottolinea spesso quanto la tecnica in questione sia esportabile, basta adattarla al territorio e non dimenticarsi mai che l’acqua non è soltanto un bene naturale da preservare, è anche un bene economico.
Ma che cosa c’è dietro a queste meraviglie del progresso? Una vicenda incredibile che raccontai su L’Europeo, nel 1988 in occasione del quarantennale dello Stato d’Israele. La storia di Yoel De Malach z”l, che del sistema di irrigazione a goccia (ma lui diceva «goccia a goccia») fu uno degli inventori. Ecco, un poco accorciato, il racconto di quel miracolo.
La baracca del Centro sperimentale (uno dei più importanti al mondo per gli studi sull’uso dell’acqua salata in agricoltura) è a pochi chilometri dal kibbutz Revivìm, dove il deserto del Neghev è già cominciato da un pezzo. Yoel, il grande capo, si allontana dal computer con cui sta lavorando e alza il volume della radio. In Israele le radio sono sempre accese e i notiziari seguiti con ossessiva meticolosità. Da quarant’anni. «Anche quella sera del 1948 ero in una baracca ad armeggiare con una scassatissima radio militare. Ben Gurion annunciava che eravamo liberi, che avevamo il nostro Stato. Non mi pareva vero. Ero felice. Piangevo. Avevo paura. I miei compagni – eravamo venti in tutto – stavano fuori in trincea. Contro i kibbutzim della zona marciava l’intera armata egiziana». La storia di Yoel De Malach è la storia di quell’esercito di halutzim che lasciarono il passato per il futuro. Per costruire un’Eretz Israel (Terra d’Israele) antiborghese, anticonformista, fondata sul lavoro e sulle teorie del sionismo socialista di Ber Borokov e Chaim Brenner.
Di signori come Yoel, piccolo piccolo, la gran testa di capelli candidi, gli occhi vicini e vivissimi, le sinagoghe italiane, il giorno di Kippur e di Pesach, sono piene. E infatti il suo cognome originario è De Angelis, ma sulla tomba di un avo vercellese si trova ancora il corrispondente ebraico di angelo, malach. «Eravamo una famiglia borghese, integrata. Mio padre, Guido, era sionista dal 1911. Da bravo italiano, sono stato balilla fino alle leggi razziali del ’38. Avevo quindici anni quando il babbo, con grande coraggio, mi mandò in Palestina. Lui, la mamma e le mie due sorelle restarono. Arrivai nel ’39. Con i patemi d’animo di un quindicenne: essere religioso o no, credere nel socialismo o no. Il nucleo degli italiani, allora, era la Ghiv’at Brenner di Enzo Sereni, dei Savaldi, dei Castelbolognesi. Loro mi educarono. Laico, alla fine, e socialista. Un ragazzino imberbe e mingherlino com’ero io, abituato alle comodità dell’Europa borghese, si trovava, in realtà, benissimo. Da giovani il domani è nuovo, tutto da costruire, si pensa solo al presente. Però manca la famiglia, c’è Hitler, si hanno notizie, poche, attraverso la Croce Rossa e il Vaticano. Il mio gruppo era formato da 50 ragazzi: 15 italiani e 35 fra lituani, tedeschi, austriaci. L’ebraico divenne faticosamente ma rapidamente la lingua con cui comunicare. Lavoravamo da salariati. Risparmiavamo i soldi per comprare la terra per il nostro kibbutz. Eravamo molto romantici, avevamo deciso di chiamarlo Revivìm, una forma poetica che nella Bibbia sta a significare gocce di pioggia. Volevamo far fiorire il deserto. Le nostre case erano le tende rotonde dell’esercito, tre brandine per tenda, i fortunati avevano il pavimento fatto con assi di legno. Poi ci mandarono a lavorare per un anno in un kibbutz. Nel ’42 ci fondemmo con altri ragazzi scappati dal nazismo. Ma non avevamo abbastanza denaro per comperare la terra agli arabi. Continuavamo a essere un kibbutz ideale, teorico. Allora vivevo a Rishon Le Zyon, un insieme di baracche a sud di Tel Aviv. Intanto il Keren Kayemeth Leisrael, il Fondo nazionale ebraico, ci diede una mano e cominciò ad acquistare terreno anche per noi. Agli inizi del 1943 avevo ormai diciotto anni fummo travolti dalle prime notizie sullo sterminio. Dovevamo fare più in fretta, correre contro il tempo. Dovevamo preparare un’isola per chi ce l’avesse fatta. Qui nel Neghev c’erano soltanto pietre, sabbia e beduini. Gli sceicchi vendevano, anche se a caro prezzo, pezzi di possedimenti perché speravano, e sapevano, che avremmo portato la vita in quella zona dimenticata. Prima una tenda, poi due. Poi una baracchetta. Con gli inglesi bisognava fare così, metterli di fronte al fatto compiuto. Il “punto d’osservazione provvisorio” di Revivìm era nato. Arrivammo alla chetichella. Le famiglie con i bambini rimasero a Rishon Le Zyon. La vita nel deserto non era pensabile per loro. Noi non sapevamo che cosa fare. Gli istruttori agricoli, per la verità, non ne capivano molto di più. Lavoravamo come matti. Non veniva su niente. Seminammo il grano: nulla. Tentammo con i pozzi di acqua salata: ancora niente. Costruimmo dighe per trattenere il ruscellaggio e l’acqua piovana. I risultati erano mediocri, ma sufficienti perché noi si sbarcasse il lunario. In un kibbutz, si sa, ogni cosa è in comune, collettiva. Nel ’48 il kibbutz vero e proprio non era ancora nato. Con la guerra si rimandò ancora una volta. I più erano disperati, gli anziani mollarono. Rimanemmo una ventina. Nel ’45 anche i miei genitori e le mie sorelle avevano lasciato l’Italia. Il 1948 – sono già passati quarant’anni? – ci trasformammo in un fortino. Qui passava la strada di collegamento fra Il Cairo e Gerusalemme. Gli egiziani ci assediarono per giorni e giorni. Due ragazzi venuti con me, Renato Volterra e Claudio Campi, mi morirono accanto. Ci gettavano il cibo con il paracadute. Dovevamo arrangiarci. Livellammo il deserto. Arrivarono i Dakota con qualche rinforzo. Mi ordinarono di procurare pomodori per i soldati. Il Palmach (i gruppi scelti dell’Haganà, l’esercito ebraico) mi mandò i semi e il concime…». La guerra finì. Yoel De Malach e i suoi compagni festeggiarono la nascita vera e propria del loro kibbutz tanto amato. Lui studiò con scienziati di fama internazionale. Girò per anni il Neghev con una jeep e un sacco a pelo. Oggi di quel deserto conosce quasi ogni segreto. E l’ha fatto fiorire. L’ha fatto rivivere.
Stefano Jesurum, giornalista
(28 maggio 2015)