tribù…

L’ultima parte della Parashà tratta dell’inaugurazione dell’altare. Tutti i dodici capi tribù portano le medesime offerte, affinché nessuno possa vantarsi di valere di più. C’è, però, una peculiarità: la Torah, abitualmente sintetica, si dilunga a ripetere tribù per tribù l’elencazione delle offerte. Ciò è spiegato col fatto che se i doni erano identici, tuttavia ognuno li portava con un sentimento personale.
Osserviamo ancora che la prima tribù a portare la sua offerta è quella di Yehudà, quella che per prima ebbe il coraggio e la fiducia di entrare nel Mar Rosso prima che le acque si fossero ritirate. Ma mentre per ogni tribù l’indicazione dell’offerta è introdotta dalla parola “qorbanò” (“il suo sacrificio”), per Yehudà la parola è “we-qorbanò” (“ed il suo sacrificio”), laddove la congiunzione – se del caso – sarebbe stata più comprensibile se non fosse stata in prima posizione. I Maestri spiegano che ciò viene ad insegnare che anche l’essere il primo, ed esserlo per meriti acquisiti, non autorizza a vantarsi della propria posizione: in ogni caso, ognuno non è che la continuazione di qualcosa che è già stato avviato prima di lui.
Questa considerazione è particolarmente opportuna nello Shabbàth che segue immediatamente la festa di Shavu‘òth, del dono della Torah: essa è nostra perché ci è stata trasmessa, perché generazioni intere hanno faticato per farcela pervenire, e tutto ciò che possiamo fare è impegnarci, senza sentirci ‘bravi’ per questo, per mantenerla e trasmetterla alle generazioni future.

Elia Richetti, rabbino

(28 maggio 2015)