Festival Economia di Trento
Piketty e il capitale da distribuire

Schermata 2015-06-01 alle 13.31.20Come per il premio Nobel Joseph Stiglitz, anche per un altro illustre nome dell’economia contemporanea, Thomas Piketty la risposta al crescere delle diseguaglianze risiede nelle decisioni politiche. Dal palco del Festival di Trento Economia, Piketty – introdotto dal direttore del Corriere del Trentino – ha ricordato al pubblico come ci sia sempre stata e c’è un’alternativa, una soluzione diversa per ridurre il debito pubblico, per organizzare la risposta alla globalizzazione, perché la storia della disuguaglianza, così come quella della ricchezza, è anche una storia sociale e politica, in cui le istituzioni, con le loro politiche fiscali e monetarie, hanno un ruolo determinante.
“La divaricazione sempre più marcata della forbice nel rapporto tra reddito e ricchezza – avverte Piketty – è un gap che dovremo sempre più affrontare in futuro. Oggi la ricchezza cresce assai più in fretta nelle mani di pochi rispetto alla moltitudine. In Italia, ad esempio, in questo periodo la ricchezza privata cresce più in fretta di quanto stia calando il debito pubblico. Ci sentiamo in colpa, nella nostra Europa, per la montagna di debito pubblico che lasciamo in eredità alle future generazioni, ma non va dimenticato che lasceremo anche un sacco di ricchezza privata. I Paesi europei sono ricchi, sono i nostri governi che sono poveri. Anche se il governo italiano dovesse vendere tutti i beni pubblici, questo non basterebbe per rimborsare il debito pubblico; non consiglio di vendere i beni pubblici, ma dobbiamo sapere che in un certo senso lo stiamo già facendo, perché quando si pagano interessi che sono più alti del valore del bene significa che in pratica lo stiamo già facendo.”
Far ripartire le aziende e le famiglie è la principale preoccupazione manifestata poche ore prima, sullo stesso palco, dal Primo ministro francese Manuel Valls, in un confronto con il Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi. Una delle politiche proposte per ottenere questo risultato, era l’immissione di nuovo denaro (euro) in circolazione, sulla falsa riga di quanto ha fatto il Giappone e, in una misura meno aggressiva, anche gli Stati Uniti. “È più facile stampare miliardi di euro piuttosto che cambiare il codice fiscale – il pensiero di Piketty – Il problema è che così si crea una bolla. La politica monetaria non è inutile, ma abbiamo chiesto troppo a questo fronte, dovremmo forse pensare che è troppo complesso concentrarci solo sulla tassazione: se abbiamo inflazione zero, poca crescita, ci vorranno decenni per rimborsare il debito pubblico, forse ci vuole una inflazione più alta e forme di ristrutturazione del debito. Le misure adottate per ridurre le disparità non hanno funzionato, ci vogliono misure più realistiche, come una diversa tassazione sul reddito da lavoro rispetto a quello da capitali. Alla Grecia si chiedono oggi cose che non abbiamo chiesto alla Germania; anziché aspettare l’ultimo centesimo conviene alleviare la tensione, se vogliamo far decollare la crescita”.

Il dossier ‘Mercati e valori’ all’interno del numero di Pagine Ebraiche di giugno, attualmente in distribuzione, contiene l’estratto di un articolo dello storico Giacomo Todeschini, comparso sugli Annales 1-2015, che analizza alcuni passi tratti dal Capitale di Thomas Piketty.

Chi giustifica le diseguaglianze

Todeschini La coscienza del fatto che esisteva una differenza tra il lavoro dei mercenari e degli artigiani e l’attivismo economico degli imprenditori, dei mercanti e dei banchieri, ossia coloro che alla prova dei fatti governavano, ha dunque potuto essere riassunta e trasmessa dai manuali del XV secolo scritti ad uso dei mercanti. Essi oppongono nettamente l’energia fisica e la sottigliezza intellettuale del grande mercante all’inerzia mentale e alla forza bruta dei lavoratori manuali, e distinguono esplicitamente le grandi imprese, che legano industria e finanza, dai traffici quotidiani e minuti dei piccoli bottegai.
È possibile ritrovare qui una radice antica, non ancora sistematizzata in termini di discorso teorico o di programma economico né costituita come una componente organica del pensiero economico degli economisti, di quello che Thomas Piketty chiama “le credenze meritocratiche […] messe in avanti per giustificare forti diseguaglianze salariali, tanto più forti quanto appaiono più giustificate delle ineguaglianze derivanti dall’eredità”. In questa prospettiva, si potrebbe ritrovare, al di là della cultura non meritocratica dei privilegiati dell’inizio del XIX secolo, un’origine più antica al fatto che “la società meritocratica moderna […] è molto più dura per i perdenti, dal momento che intende basare il loro dominio sulla giustizia, la virtù e il merito, e all’occorrenza sull’insufficienza della loro produttività”.
In una presentazione del 2013, T. Piketty ha osservato che “questo può essere il peggiore dei mondi per tutti coloro che non sono né super manager né super ereditieri: sono poveri, e in più sono descritti come poco meritevoli”. Bisognerebbe certamente ricercare nella storia delle categorie e dei linguaggi dell’economia e del diritto europei come sia stata prodotta una simile retorica della giustificazione delle diseguaglianze.
Questa “archeologia” conduce a formulare un’osservazione nuova a proposito della relazione tra la falsa meritocrazia di chi vive di rendita e l’aspetto prodigioso e magico della rendita del capitale. Descrivendo il meccanismo delle rendite e delle eredità, T. Piketty scrive: “Certamente vi è qualcosa di stupefacente in questa nozione di rendita prodotta da un capitale, e che il detentore può ottenere senza lavorare. Vi è in questo qualcosa che urta il senso comune, e che di fatto ha perturbato civiltà che hanno tentato di darvi diverse risposte, non sempre felici, che vanno dal divieto di usura fino al comunismo di tipo sovietico”. A questo proposito, è necessario sottolineare che il divieto di usura non ha mai, né nel Medioevo né in epoca moderna, contestato il diritto dei più ricchi ad arricchirsi facendo fruttare il loro capitale. Allo stesso modo dal lato giuridico e dal lato teologico, si è molto precocemente stabilita una distinzione sottile ma perfettamente intelligibile tra usura e produttività di un capitale, sottolineando già dal XIII secolo che il valore sociale e, dunque, il senso economico della produttività del denaro dipendono dal ruolo sociale e politico del capitalista, ossia dal fatto che il detentore del capitale è riconosciuto dal mercato come un investitore professionista, fondamentale, in ragione dei rischi che lui e il suo capitale corrono, per la crescita di quello che si chiamava il bene comune, e che si chiamerà prosperità collettiva, ovvero felicità universale. I saperi istituzionali europei hanno dunque cominciato molto presto ad affermare la differenza netta fra l’illegalità della rendita parassitaria dell’usuraio e la legalità, ovvero il prestigio e la moralità dalla rendita in quanto profitto del capitalista mercante e banchiere.

Giacomo Todeschini

da Pagine Ebraiche, giugno 2015

(1 giugno 2015)