Identità plurale
“L’Italia è un luogo molto accogliente coi forestierismi (certo più che coi forestieri), ma a una condizione: che non pretendano di portarsi dietro le loro desinenze, che si astengano dall’alterare il dna della nostra lingua con la loro morfologia. Quindi: un bar, due bar; uno strudel, due strudel, una liaison, due liaison, e così via. Unica – o quasi – eccezione, le numerose parole di ebraico adoperate dagli ebrei italiani per riferirsi ad alcuni elementi del loro specifico culturale e che vengono abitualmente declinate al plurale secondo le regole della morfologia ebraica: kibbutz / kibbutzim, kippà (copricapo usato dagli ebrei osservanti) / kippòt, mitzvà (precetto religioso) / mitzvòt, ecc.”
Siamo davvero – come scrive Andrea De Benedetti nel suo utile e divertente libretto “La situazione è grammatica. Perché facciamo errori, perché è normale farli” (Einaudi 2015) – un caso così eccezionale da meritare una deroga tutta per noi alle regole della lingua italiana? O forse sono stati i molti anni di Hashomer Hatzair a indurre l’autore a concedere al piccolo mondo ebraico italiano uno spazio tutto per sé in un libro di grammatica? A prima vista quell’“o quasi” in cui sono compresse tutte le altre possibili eccezioni mi è parso un po’ troppo affollato: non dovrebbe contenere tutte le parole greche e latine che nessuno studente di liceo classico si potrebbe mai permettere di non declinare? È vero che quelli (curriculum / curricula, topos / topoi) sono plurali ufficialmente prescritti dal vocabolario; ma vale la pena notare che il medesimo vocabolario (al momento ho sotto il naso lo Zingarelli del 1996) si premura di dirci che il plurale di ‘kibbutz’ è ‘kibbutzim’, mentre, curiosamente e con poca coerenza, la parola ‘kippah’ è definita invariabile.
Mi pare che la differenza sia un’altra: i termini greci e latini sono fatti per essere declinati correttamente, oppure non usati per nulla; le parole ebraiche possono benissimo rimanere invariabili se usate all’esterno del mondo ebraico. Non per niente Andrea De Benedetti parla di parole “adoperate dagli ebrei italiani”: siamo un gruppo che non solo ha le proprie feste e le proprie regole diverse da quelle altrui, ma anche le proprie regole nell’uso dell’italiano. Usare termini greci e latini e declinarli correttamente è una sorta di status symbol, un modo di sfoggiare la propria cultura, di rivendicare la propria appartenenza a un’élite intellettuale. Usare le parole ebraiche al singolare e al plurale scrivendo in italiano è uno dei tanti mezzi che noi ebrei utilizziamo quotidianamente per declinare (è proprio il caso di dirlo) la nostra identità.
Anna Segre, insegnante
(5 giugno 2015)