…Israele
Sin da bambino, nella piccola scuola ebraica di provincia, ho imparato a raccogliere i francobolli di Israele. Ricordo quello di Theodor Herzl, forse quello di Golda Meir. Ricordo un Ben Gurion.
Sono stato un piccolo sionista della prima ora. Del resto, l’Italia non ci aveva trattato molto bene negli ultimi anni. Diversi parenti erano finiti ad Auschwitz con la collaborazione attiva di volenterosi vicini di casa. Non ricordo, di quei tempi, il sorriso dei miei genitori. Ho dovuto aspettare un bel po’ di anni per conoscerlo. Poi ho cominciato a capire. Mi sono tenuto dentro quel po’ di giusto rancore che non riuscivo a cancellare e sono cresciuto nel silenzio, mio e degli altri.
Sapevo però che solo di Israele potevo fidarmi, e tenevo ben custoditi nel mio piccolo reliquiario i francobolli di Herzl e di Golda Meir. Il sentimento non è mai venuto meno. Il legame si è anzi rafforzato negli anni per l’isolamento politico in cui era evidente che alcuni paesi avevano relegato Israele. Nel contempo, cresceva la consapevolezza di essere erede di una tradizione diasporica, italiana, di cui potevo andare orgoglioso, e mi rendevo conto che non potevo imputare a una nazione intera le colpe di una parte, anche se non proprio piccolissima, di essa. Cresceva in me il senso della mia inevitabile ‘dual loyalty’, fastidioso finché qualche compagno di scuola idiota e fascistoide me lo rimproverava, eppure fruttuoso di interiorità. Mi sentivo dotato di un valore aggiunto: amavo due paesi, e per motivi diversi.
È l’unica cosa che, da quei tempi, in me non è mai cambiata. Oggi però mi interrogo, e mi chiedo che cosa è cambiato, o che cosa sta morendo (o è già morto), nel nostro ebraismo se alle elezioni della maggiore comunità italiana si presentano (e prevalgono) liste che hanno Israele per bandiera comunicativa (è una metafora!). Si vuole affermare che abbiamo messo in secondo piano le necessità e l’identità del nostro ebraismo italiano? Si vuole sostenere che chi non alza quella bandiera non ama Israele (cosa già ampiamente letta e sentita in varie fonti ed enunciata da varie voci)? Si vuole semplicemente usare Israele come arma vincente per toccare certe corde profonde dell’animo ebraico e del nostro senso di colpa, magari dando insieme l’ostracismo a chi non ama Israele con lo stesso totalizzante amore? La strategia può essere adottata in perfetta buona fede, ma ha risvolti che considero a dir poco biecamente divisivi della tanto auspicata e sbandierata unità del popolo ebraico. Ci si batte ormai non su un terreno comune e per fini comuni, ma sul terreno che si pensa porti più voti. Anche se poi, durante il tuo mandato di governo dovrai occuparti non di politica israeliana, ma di gestire una scuola, una sinagoga, un mikvé, possibilmente una cultura, e magari occuparti di gente che ha bisogno di assistenza e, perché no?, di ritrovare antichi e perduti motivi comuni di aggregazione. La strategia che tanto ha diviso renderà ben difficile la risocializzazione. E non sarà invocando la Torah che si ottiene il miracolo. Né accusando l’amico ebreo di antisemitismo e odio di sé. Alla fine il governare diventa una attività fine a se stessa, autotelica, direbbe il mio lettore filosofo. E le nostre ‘guide spirituali’ stanno alla finestra a guardare con beata indifferenza il bello spettacolo.
Dario Calimani, anglista
(23 giugno 2015)