Israele, “il posto migliore del mondo”

Schermata 07-2457205 alle 12.26.14“Ero in treno diretta verso Parma e, mentre leggevo l’Internazionale, mi sono imbattuta nella recensione di un libro che mi ha subito intrigata. Si intitolava ‘Il posto migliore del mondo’ ed era firmato da una scrittrice israeliana trasferitasi in Canada, Ayelet Tsabari. Arrivata a destinazione, ad aspettarmi ho trovato un pacco di libri e tra quella pila a fare capolino c’era proprio lui: ‘Il posto migliore del mondo’. Non sono riuscita a non amarlo”.
Così la scrittrice Nadia Terranova, reduce dal successo del suo primo romanzo “Gli anni al contrario ” (ed. Einaudi) e collaboratrice affezionata di DafDaf, il giornale ebraico dei bambini, ha introdotto la collezione di racconti di Ayelet Tsabari appena pubblicati dalla casa editrice parmigiana Nuova Editrice Berti.
Un confronto serrato tra due scrittrici coetanee, così vicine e così lontane, organizzato dal Centro di cultura ebraica della Comunità ebraica di Roma presso la libreria Kiryat Sefer, che le ha viste riflettere sui temi dell’appartenenza e lo sradicamento, ma soprattutto sulla frammentarietà identitaria di Israele, “Il posto migliore del mondo”.

ayelet tsabariPerché scrivere in inglese? “Quello che mi ha colpito, – spiega Terranova – è stata la decisione di Ayelet di scrivere in inglese. Una scelta inusuale per uno scrittore israeliano la cui prima lingua dovrebbe essere l’ebraico. Ma come è accaduto?”. “Quando mi sono trasferita in Canada e mi sono ritrovata a scrivere – risponde Tsabari – ero bloccata. Non sapevo perfettamente l’inglese eppure era la lingua con la quale mi confrontavo la maggior parte del tempo. Vivevo in un limbo, bloccata tra l’inglese e l’ebraico. Così dopo sette anni di paralisi creativa, improvvisamente ho capito la risorsa della nuova lingua: anche se non lo maneggiavo con la stessa padronanza dell’ebraico, anche se il mio lessico era meno ricco e fiorito, la l’inglese mi permetteva di re-inventare me stessa, esattamente come quando si decide di trasferirsi da un paese all’altro. La nuova lingua mi ha obbligata a sfidare me stessa, a sforzarmi e di conseguenza ad essere più creativa. Del resto Samuel Beckett esaltava l’uso del francese, dicendo che per trovare soluzioni nuove è necessario non avere tutti gli strumenti”.

Uno stile israeliano. “Leggendo i diversi racconti di Tsabari – prosegue Terranova – mi ha colpito una soluzione narrativa ricorrente: ci ritroviamo di fronte ad un fatto che accade e poi vediamo la reazione contrapposta di due personaggi, uno sconvolto dall’avvenimento e uno che non vi dà così tanta importanza. Penso per esempio alla vicenda che vede protagonista una figlia che deve dire alla madre che non circonciderà il figlio e alle reazioni totalmente opposte delle due. E anche al racconto che si focalizza su una ragazzina disperata perché il padre è morto che si sente accusata di essere esagerata, perché in fondo è solo morto di malattia e non attraverso un gesto eroico”. “Lo stile di Tsabari – sottolinea Terranova – è particolare; la scrittrice parla con leggerezza persino della guerra senza essere mai ironica (forse più, senza ironizzare). Riesce ad essere seria ma a non perdere levità”. “Concordo con Zadie Smith – spiega Tsabari – quando dice che lo stile è il modo che uno scrittore ha per dire la verità. All’inizio cercavo di emulare lo stile nord-americano, poi mi sono resa conto che quella che c’era sul foglio non ero io. Il mio modo di parlare della guerra è leggero perché rispecchia l’identità di molti israeliani che tentano di convivere con la realtà. Ed è molto ‘israeliano’ anche il mio essere sentimentalista più che ironica, essere diretta e passionale. Il tema dell’appartenenza è poi sicuramente un’eredità della tradizione ebraica”.

Riscoprire Gerusalemme. Nel libro, prosegue Nadia Terranova, colpisce la rappresentazione di Gerusalemme, lontana dagli stereotipi che la vedono in netta contrapposizione con la bianca e giovane Tel Aviv. “Gerusalemme – risponde Tsabari – è in realtà molto viva e vibrante. Viene percepita come pesante perché pesante è la sua storia, ma riesce ad essere anche volatile ed energetica, anche se in modo diverso da Tel Aviv. Da piccola devo ammettere che non la amavo, mi lamentavo dicendo che era caotica, sporca. Persino nel mio libro una delle protagoniste sostiene che la città le faccia venire il mal di testa. Solo da adulta penso si riesca a vedere la vera bellezza di cui è composta Gerusalemme. Nelle storie che ho scelto di raccontare ho sempre investito molto sull’importanza dell’alterità, volevo descrivere israeliani di cui si parla poco, lontani dallo modello assai conosciuto dell’ebreo di origine ashkenazita. Ho parlato di ebrei di paesi arabi, io stessa sono di origine yemenita, ma anche dei tanti cittadini provenienti dalle Filippine che oggi abitano in Israele e tentano di integrarsi. Volevo rendere tutto più speziato e complicato, perché, del resto, Israele è proprio così”.

La scelta tra romanzo e racconti. “In Italia – conclude Terranova – sembrerebbe impossibile poter esordire con una collezione di racconti. Un editore ti suggerisce prima di pubblicare un paio di romanzi che vendano bene e poi si vedrà. Come ha fatto Ayelet Tsabari a contravvenire a questa tacita regola? E quali sono i prossimi progetti?”. “La verità è che arrivi ad un punto nel quale devi fare quello che è necessario fare – dice Tsabari – e per me in quel momento era necessario scrivere storie brevi nelle quali potessi rendere la varietà delle situazioni e dei personaggi. Ma per il futuro sto lavorando ad un romanzo ed anche a un memoir”.

Lunedì scorso Ayelet Tsabari ha inoltre presentato la sua opera alla libreria Trebisonda di Torino nei pressi della Comunità ebraica. Ad introdurla la scrittrice Donatella Sasso, coordinatrice dell’attività culturale dell’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini, dove lavora come ricercatrice, nonché collaboratore scientifico del Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte. L’ultimo romanzo della Sasso “Milena, la terribile ragazza di Praga” (Effatà editrice) è dedicato alla figura di Milena Jesenská, la ribelle giornalista legata a Franz Kafka che morirà nel 1944 nel Campo di concentramento di Ravensbrück.

Rachel Silvera twitter @rsilveramoked

(1 luglio 2015)