Ticketless – Baroni e barbetti

cavaglion Non si può sorvolare sulla visita del pontefice nel Tempio valdese di Torino, lunedì scorso. Sugli schermi, nel volto austero degli invitati ritrovo i lineamenti inconfondibili di quegli uomini e donne che coltivavano “ripiani calcinosi dove a fatica cresce qualche misera vite e dello stento frumento” (Italo Calvino). Uomini e donne che per secoli hanno difeso la loro dignità dai soprusi sabaudi ed ecclesiastici. Alla mente sono tornati vecchi amici d’infanzia, luoghi della valle Pellice dove ho trascorso periodi di serenità, il ricordo degli annuali convegni della Società di Studi Valdesi (nel 1988 – dopo decenni di silenzio – Giorgio Spini e Giorgio Rochat hanno promosso un importante incontro sulle leggi razziali). Alcuni di questi amici mi hanno sempre preso in giro, lamentando la mia visione idilliaca delle minoranze. Come esiste – ed è dannoso – un pregiudizio positivo verso gli ebrei, così non si deve cadere nel tranello di un pregiudizio positivo nei confronti di “Israele delle Alpi”.
Eppure, eppure… come non ricordare in questi giorni di rievocazioni storiche, il “Glorioso Rimpatrio” che fu una specie di alyiah da Ginevra a Torre Pellice? Come non ricordare la figura del Barone Leutrum, il Barunlitrùn della celeberrima canzone popolare piemontese?
Il Barone rifiutò la conversione al cattolicesimo. L’onore più alto a cui dovette rinunciare fu il collare dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata, la massima onorificenza del Regno di Sardegna, che re Carlo Emanuele III voleva concedergli per i suoi meriti militari. Quando era sul letto di morte, nel 1755, il sovrano in persona andò a trovarlo, ma il Barone rifiutò. Chiese di essere sepolto nel tempio valdese di Angrogna, dove le sue spoglie si trovano e dove fu accompagnato dal Reggimento Leutrum, così chiamato in suo onore. La letteratura popolare preferì legare il suo nome non alla coerenza religiosa, quanto alla sua passione per il vino e la bella vita, di qui il caustico soprannome. La maggioranza degli ebrei piemontesi fra Otto e Novecento amò invece la sua rettitudine e come ovvio s’identificò in quel rigoroso rifiuto della conversione: vi sono belle testimonianze del fervore con cui a squarciagola i figli del ghetto cantavano i versi più famosi di quella canzone popolare: “Baron Litron, s’t’ài da murì, ò veusto nen che ti batezo? Faria vënì ‘l vësco ‘d’ Turin, mi servirìa për tò parin” (“Baron Litron, se devi morire, non vuoi essere battezzato? Farei venire il vescovo di Torino, io ti farei da padrino”). E la pronta risposta al monarca: “Baron Litron sa j’à bin dit – Sia ringrassià vòstra corona. Mi peuss mai pi ruvé a tant: ò bon barbet, ò bon cristian” (“Baron Litron gli ha ben detto – Sia ringraziata la vostra maestà, ma io non posso arrivare a tanto: o buon protestante o buon cattolico”). “O bon barbet o bon cristian!”. Auguri sinceri, amici barbetti.

Alberto Cavaglion

(1 luglio 2015)