La vita raccontata con il pennello

Schermata 07-2457211 alle 13.00.33Entrare nel mondo di Eva Fischer è una di quelle emozioni da Grande Bellezza. Ti senti come un giapponese in piena sindrome di Stendhal.
Come Owen Wilson in Midnight in Paris, incredulo mentre Gertrude Stein valuta il suo manoscritto. Non è esagerato inserire Eva Fischer tra le testimoni attive di un’età dell’oro perduta, dove i colori si mescolavano alle parole, animali selvatici giravano liberi per via Veneto e bestie rare rendevano Roma il crogiuolo dell’arte: tra eclettismo, ferite mai rimarginate e una feroce spinta verso la vita.
Tutto questo lo si scopre varcando la soglia della sua casa trasteverina, una roccaforte disseminata di tele e libri. Ci accoglie lei, Eva la pittrice, con quella camicia bianca che più bianca non si può. Eva, i cui occhi non nascondono la bellezza femminile che l’ha sempre contraddistinta. Una Lauren Bacall con le mani in movimento perenne.
Accompagnata dal figlio, il suo primo complice ed alleato, ci fa accomodare nel salotto: davanti a noi un enorme dipinto che raffigura delle ballerine. Difficile trovare la concentrazione quando vorresti solo immergerti in quella sala da ballo e infastidire le dignitosissime ed atletiche fanciulle. Volti lo sguardo, ed ecco una bicicletta adagiata, il suo tema caratteristico, il personaggio principale. Come trattenersi? Ho quasi l’impulso di saltare sopra quella bicicletta scalcagnata e rifugiarmi in un turbinio di blu e rossi.
Ma, in fin dei conti, l’opera più ineffabile e interessante del salotto, resta inequivocabilmente lei: Eva Fischer. Sapete chi è la nostra Eva? È, per esempio, l’artista che visita i musei con un Cicerone d’eccezione: Marc Chagall. “Grazie alle passeggiate parigine con lui ho scoperto la tecnica di Renoir e di Tiziano” racconta a Marina Bakos, curatrice della mostra alla Gam, Artiste del Novecento, che la vede tra le protagoniste. È Eva, una delle poche donne accolta in gruppi di uomini dell’intellighenzia romana; tutti a bere un caffè al Luxor di Piazza del Popolo, mentre dall’altro lato, da Rosati, i letterati, Moravia in testa, ricevevano Sartre e Simone De Beauvoir. Qualunque artista calcasse le sacre sponde romane, incontrava la Fischer, la pittrice delle biciclette e dei mercati.
La pittrice che ha dipinto la musica. E come poteva non dipingerla, avendo come vicino di casa l’allora poverissimo Ennio Morricone, che nonostante disponesse di parecchie bocche da sfamare, non poteva resistere ai suoi quadri, specie se muniti di fiori? Mentre racconta la sua storia, infilando una perlina preziosa dopo l’altra, arriva suo marito, il giornalista e poeta Alberto Baumann (scomparso nel 2014 ndr) e la guarda intriso di dolcezza, levando i suoi occhi in coro a quelli del figlio. Un marito che ha sposato in bicicletta davanti agli astanti stupiti e in brodo di giuggiole. Eva sembra la personificazione dell’ideale ebraico di Eschet Chayl, la donna più preziosa delle perle che porta al collo.
Non resta a questo punto che chiederle come e dove nasce Eva Fischer: “Nasco a Daruvar, in ex Jugoslavia nel 1920. Mio padre Leopoldo era il rabbino. Ricordo ancora quando la Seconda Guerra Mondiale arrivò a Belgrado. Ci furono quattro bombardamenti di due ore, la musica si interruppe e dalla finestra vidi cadere un palazzo.
Corsi allora a portare tutti i libri in soffitta. Proprio a Belgrado ho perso mio padre, ucciso dalla follia nazista. A causa della guerra venimmo in Italia, io mi fingevo sordomuta per non far riconoscere il mio accento. Mio fratello Eric invece faceva il medico in Svizzera. Molti coprirono me e mia madre in quel periodo, il nome ufficiale da dire a tutti era Eva Venturi – quanti nomi ho avuto -. Un giorno il vicino fascista, insospettito dal viavai di presunti partigiani in casa nostra, voleva incastrarci. Spiegai con molta tranquillità che quei bravi ragazzi volevano da me semplicemente un ritratto. Non mi definisco una partigiana, in quel periodo a bordo della mia bicicletta attaccavo manifesti antifascisti, è vero. Questo però non fa di me una partigiana”.
Ma cosa rimane di questi anni terribili? “Ho cambiato tantissimi temi e soggetti nella mia carriera artistica. Uno però è stato continuo, la Shoah. Non ho mai pensato di abbandonarlo”.
E vedere quei quadri, con quelle mani dipinte, apice del dramma, fa salire un brivido lungo la schiena.
A questo punto Eva si irrigidisce e incupendosi si chiude in un silenzio acutissimo. Torniamo quindi alla sua grande passione: “Ho iniziato a dipingere fin da quando ricordo di esser nata. A sedici anni sono andata a studiare arte a Lione e dal primo anno mi hanno fatta passare in fretta e furia al terzo”. Un’ebrea errante, in giro per il mondo, con i suoi colori ad olio sempre a portata di mano. Prendiamo un mappamondo immaginario: Eva Fischer ha una storia straordinaria per ogni città.
Si inizia dunque da Roma, il paese della Cuccagna: “Oltre a bere caffè da Luxor e a frequentare il ristorante preferito di Sandro Pertini, ogni sabato sera andavamo a casa dello scultore Tot, che apriva le porte come un Abramo degli anni ‘50. Lì potevi incontrare chiunque. Per un periodo invece, ogni notte andavo a Piazza Navona; mi ero messa in testa di disegnare la luna. C’era poi addirittura chi voleva diventassi un’attrice, dovevo interpretare la figlia di Anna Magnani in un film. Ma non ho mai preso in considerazione l’idea di fare altro se non dipingere”. Una volta a Roma è arrivato anche Dalì: “In America non si può vivere, perché non ci sono mosche, mi disse, in Spagna nemmeno perché sono sporche. In Italia sì. Ecco, dopo aver ascoltato questa frase bizzarra ho finalmente capito perché si definiva un surrealista”.
Per non parlar poi delle avventure di Eva Fischer a Madrid: “Mi avevano dedicato una esposizione grazie al direttore dell’Accademia Spagnola in Italia. Tutti sembravano interessati, ma nessuno comprava i miei quadri, dicevano che sarebbero ripassati. L’ultimo giorno fecero piazza pulita. Allora imbottii la macchina di pellicce, gioielli e chi più ne ha più ne metta. Avevo una Giulietta e la riempii come un uovo. Sulla strada per Milano, mi fermai a dormire e la parcheggiai in un posto pieno di scassinatori. La mattina dopo, tutte le macchine erano state distrutte dai ladri. La mia Giulietta era intonsa: l’avevo lasciata talmente in disordine che i ladri pensarono di essere arrivati in ritardo”.
E se dico Beverly Hills? “Lauren Bacall, la moglie di Humphrey Bogart, si innamorò talmente tanto dei miei quadri da comprargliene uno. Lo appesero dirimpetto al letto nella loro villa”. Ma non è finita: “Ad Eilat regalai dei disegni e Moshe Dayan me ne fu grato. A Londra invece feci una mostra nella galleria dove l’unico italiano esposto prima di me era stato Modigliani”.
E se l’arte della Fischer ha calcato qualsiasi terreno, sampietrini e sabbia medio-orientale compresi, i luoghi dell’anima non sono da meno: “Ho dipinto con i colori ad olio le città mediterranee, i bambini, le ballerine, Capri – dove conobbi gli eredi di Renoir – e Procida. Ho reinterpretato Piazza Vittorio, Piazza del Popolo e le biciclette. Ho davvero molto amato le biciclette: per me sono persone, non oggetti, scalcagnate perché anziane” racconta intenerita. “E la musica… Come amavo dipingere la musica! Ascoltavo il mio vicino di casa Ennio Morricone, che suonava dal mattino alla sera. Dipingevo le sue sinfonie ancor prima che diventasse compositore di colonne sonore. Lui invece mi ha dedicato un cd”. Ed ora? “Ora dipingo per me, dipingo nella mia testa. Scelgo con cura i colori e i soggetti e immagino”. L’album si arricchisce ogni giorno: la maglia a righe di Picasso, i baffi di Dalì, Guttuso, Moravia, Sandro Penna, Bogart: sembra un quadro di un astrattista impazzito. Invece è la favolosa vita di Eva Fisher, ‘Pittore’.

Rachel Silvera

Pagine Ebraiche luglio 2014

(7 luglio 2015)