J-Ciak – La “Hotline” dei rifugiati

hotlineÈ uno di quei film capaci di aprirci nuovi mondi e domande infinite. “Hotline”, il documentario di Silvina Landsmann che si è aggiudicato il premio della Van Leer Foundation al Jerusalem Film Festival da poco concluso, mette il dito su una piaga che solo di tanto in tanto negli ultimi anni è balzata all’attenzione dei media. Narrando il paziente lavoro quotidiano dei volontari dell’omonima Ong di Tel Aviv, la regista israelo-argentina illumina infatti di una luce inconsueta il problema dei rifugiati africani in Israele. Uomini, donne e bambini (spesso nati in Israele) che qui hanno trovato scampo da guerre, persecuzioni e miseria. Ma che qui non hanno status legittimo né alcuna speranza di poterlo un giorno ottenere.
Attraverso queste storie Landsmann narra le drammatiche contraddizioni di un sistema che spesso, a detta dei volontari e della determinatissima Sigalit Rosen che li guida, opera in palese violazione o comunque nell’indifferenza delle convenzioni internazionali e si rifiuta di prendere atto della loro presenza e dei loro diritti. I rifugiati, secondo le stime proposte nel documentario, sono oggi fra i 50 e i 70 mila e, passando attraverso l’Egitto, arrivano da Etiopia, Eritrea, Sudan, Ghana e altri paesi africani.
Le autorità li definiscono ‘infiltrati’, anche se molti di loro potrebbero avere il diritto di venire riconosciuti come rifugiati perché a rischio di venire torturati o uccisi se rientrano nel loro paese. La maggior parte di loro all’ingresso è condannata a tre anni di detenzione che spesso divengono uno mentre le loro pratiche restano sospese in un limbo surreale. La presenza degli ‘infiltrati’ di fatto finisce per venire tollerata, con capolavori di follia burocratica quali il divieto di avere un lavoro ma il tacito impegno a non impedire loro di farlo.
Le conseguenze sono molto pesanti sia per i diretti interessati, che vivono in povertà estrema e senza alcuna certezza sul futuro e sul destino dei loro figli, sia per gli israeliani, soprattutto quelli del sud di Tel Aviv dove hanno finito per ammassarsi i migranti. I volontari di Hotline lavorano per aiutarli a ottenere un visto temporaneo, tirare qualcuno fuori dal carcere, organizzare un rimpatrio.
Qualcuno finisce infatti per preferire il rientro in patria a questa situazione di estrema precarietà e pare essere questa, a giudicare dalle lunghe riprese di incontri governative effettuate da Landsmann, la speranza del governo: che i migranti se ne tornino a casa loro. Il fatto che quasi nessuno di loro sia ebreo di certo non aiuta. E non aiuta nemmeno, in una società a cui il razzismo non è estraneo, il fatto che siano neri. Vedere i volti di questi uomini e donne, sentire le loro storie e le loro speranze è un esercizio doloroso. L’auspicio della regista era di far riflettere gli spettatori. Un obbiettivo pienamente centrato.

Daniela Gross

(23 luglio 2015)