Il piombo dell’Europa

vercelli Le immagini televisive ci consegnano, quasi in presa diretta, le trasformazioni in atto nella “nuova Ungheria” di Viktor Orbán, dove si sta costruendo un muro contenitivo – l’ennesimo, dal 1989 – contro l’ingresso clandestino di immigrati dalla Serbia. Di corredo, le stesse immagini, per nulla censurate, anzi diffuse senza alcun problema né, tanto meno, sensi di colpa, documentano di vagoni indecorosamente stipati da donne e uomini, bambini e anziani, trasportati coattivamente, in genere sotto scorta, a Budapest. Ogni vagone viene chiuso dall’esterno usando il piombo e quindi isolato dal resto del convoglio. Si affrettano a precisare, i cronisti, che l’Ungheria è un ‘paese di transito’ poiché i migranti – meglio dire la lunga teoria di profughi – sarebbe destinata ad altre mete. Se ne desume che la polizia, impeccabile nel suo rigido formalismo, stia lì solo per regolare il ‘traffico’, garantendosi che gli indesiderati mantengano l’impegno, non scritto, di andare subito a cercare lavoro e magione in altri paesi. La stragrande maggioranza di essi ha alle spalle un periplo continentale, fatto di giornate, settimane se non mesi di lunghi esodi, alla ricerca di un qualche luogo dove sperare di ristabilire quelle radici che una qualche guerra civile gli ha strappato. Detto e constatato questo, inutile – tuttavia – stabilire da subito immediate analogie con il passato. Magari per gridare, senza crederci troppo in cuore proprio, allo scandalo. Scandalo in casa altrui, ovviamente. Poiché in questi casi, l’erba del vicino è sempre più scura. Anzi, bruna. Poiché così più che altro, ciò facendo, si dà fiato ai denti e null’altro. Così come non è meno discutibile il ripetersi, al pari di una sorta di nenia tanto rassicurante quanto ipnotizzante, che la specificità dei trascorsi non si rispecchia in alcun modo nella violenza del presente. Poiché se pensassimo per davvero in tale modo, allora quel passato così terribile (quello delle deportazioni, per intenderci), sarebbe davvero trascorso inutilmente, ossia senza consegnarci alcun segno tangibile, una consapevolezza che non sia mero ritualismo. Troppo facile sconvolgersi per le tragedie quando queste si sono già consumate, magari alzando il dito accusatore, nel mentre per il presente ci si adopera in esercizi bizantini, in arzigogoli linguistici, in funanbolismi intellettuali, per dire che la sofferenza altrui non è in fondo parte integrante di quella che fu e rimane nostra. Chi altrimenti così fa, ancora una volta, all’atto pratico, si nasconde invece dietro alle ‘inderogabili esigenze’ di una qualche ‘emergenza’ che presiederebbe alla sospensione della tutela dei diritti civili, di quelli sociali e, infine, di quelli umani di alcuni gruppi. Quelli altrui. Naturalmente descritti, anche in questo caso, come minacciosi, destabilizzanti e, quindi, da espellere nel nome di un ‘interesse collettivo’ che è solo il nome di comodo che si dà a quella miscela tra paura ed egoismo che alligna nelle nostre società. La paura di perdere qualcosa, l’angoscia di averla già perduta, dinanzi ad un mondo che a tanti sembra sempre più ostile e nei confronti del quali ci si ritrae nel proprio intimo, vivendo se stessi e il proprio ambiente come un fortino assediato. Ogni presenza descritta come intrusiva è, al medesimo tempo, tematizzata come una “minaccia” all’ordine costituito. Avveniva anche negli anni Trenta, per capirci. E vani, poiché sostanzialmente falsi, sono i tentativi di rassicurarsi sul fatto che non vi sia coincidenza alcuna tra epoche storiche diverse. Lo storico, ma anche l’uomo di buon senso, sa che il resoconto della realtà che ci offriamo oggi per giustificare l’altrui servitù è il medesimo di quello utilizzato a suo tempo per giustificare quelle violenze istituzionali che sarebbero poi sfociate in una tragedia europea. Dunque, da ciò dobbiamo fare derivare il giudizio per cui tutto si ripete? Già abbiamo detto di no poiché il nocciolo della questione, in tutta onestà, non è per nulla questo. Il vero problema non è se una tragedia debba verificarsi come la fotocopia di un’altra (mai, nella storia, le cose hanno funzionato in tali termini) ma, piuttosto, quale sia il tasso di barbarie che, oramai, riteniamo del tutto accettabile nelle nostre esistenze affinché esse ci sembrino comunque sufficientemente protette, tutelate, garantite, anche a costo (soprattutto) di abbandonare gli ‘altri’ al loro infame destino, di naufraghi senza scialuppa. Poiché, in questo caso, se così dovesse essere per davvero, ipocrisia, pavidità e banalizzazione sarebbero la vera pasta di cui siamo fatti. Detto questo, rimane qualcosa da chiarire, Il problema, a ben vedere, non rimanda a chi pensa criticamente a queste cose ma a chi non vuole pensarci (salvo poi fare la parte – questa sì dell’anima bella – di colui che cade dal pero) o per quanti si autorassicurano a prescindere da qualsiasi riscontro. Dimostrando, tra l’altro, di non avere capito una cosa: quanto accade a profughi e apolidi può benissimo essere l’antipasto di futuri disastri, che potrebbero chiamare in causa anche chi si ritiene al riparo da qualsiasi rinculo della storia. Si tratta di una questione di circostanze politiche e sociali, non di moralità, peraltro quest’ultima, a tutt’oggi, ben lontana dall’essere assodata e consolidata una volta per sempre. Il destino delle minoranze bistrattate, ammonisce l’uomo di buon senso, precorre quello delle maggioranze alla ricerca di qualche fallace sicurezza. Due cose da aggiungere, infine: i veri illusi sono quelli che strepitano contro qualcosa o qualcuno, non rendendosi conto del fenomeno specchio (de te fabula narratur, dicevano i latini: se va male a loro potrà andare male anche a te); inoltre, il riscontro che l’ossessione per gli imperativi morali, oramai inflazionati, è inversamente proporzionale alla capacità di gestire sul piano politico i processi di radicale mutamento in atto. Come c’è un buon uso della storia e delle memorie esiste, purtroppo, anche una retorica del “mai più!” che, nel momento in cui simula di puntare il dito accusatore contro ciò che è avvenuto si accomoda silente rispetto a quanto sta avvenendo, accettando compromissioni e silenzi. Dalle macerie politiche di una Unione Europea capace forse di fare i conti con quello che fu ma non con ciò che già è, e ancora di più con quanto potrebbe ancora essere, si rischia di uscire tutti sconfitti. Il compito delle minoranze dense, consapevoli di sé perché memori di una storia che non è solo racconto della propria sofferenza ma comprensione di un dolore universale, in questo Continente politicamente declinate, è di aiutare a fare chiarezza sui meccanismi che portano all’implosione della democrazie. Non si tratta di adagiarsi sui pessimismi di circostanza né, tanto meno, di darsi per sconfitti anticipatamente, magari recitando le facili giaculatorie di circostanza. Semmai, la questione è ben altra. Implica l’evitare che quel ‘noi’ nel quale ci riconosciamo diventi una sorta di gelosa prerogativa, Ogni epoca sa dotarsi di una apparato di giustificazioni con il quale rassicurasi sul fatto che “va tutto bene”. Le minoranze dicono spesso, e fastidiosamente, alla maggioranze: “scusa, ma i conti non tornano!”. Riprendiamoli daccapo, altrimenti il bilancio rischia di essere deficitario. Per tutti. Se non vogliamo vivere in un mondo fatto di muri, che nel tentativo di isolare gli altri separano prima di tutto coloro che credono di potersi riparare una volta per sempre dietro di essi.

Claudio Vercelli

(27 luglio 2015)