Dalla vocazione agli affetti, il Morè si racconta

chiedi a tuo padreI nostri lettori, da quasi due anni, apprezzano i suoi straordinari affreschi della Roma ebraica. Adesso rav Vittorio Della Rocca, il Morè, si apre a un nuovo emozionante racconto. Chiedi a tuo padre e te lo dirà (ed. Salomone Belforte), questo il titolo del suo straordinario libro di memorie che andrà in distribuzione a settembre e che il rav ha voluto condividere in anteprima in questa estate di grandi attese. Dall’infanzia al lungo magistero rabbinico, dall’amicizia col rav Toaff all’impegno per il dialogo: sono tanti i mondi che il rav ha voluto narrare. Quando si è trattato di scegliere il titolo, spiega, è stata la Torah a venirgli in soccorso. Si legge infatti in Devarim: ‘Chiedilo a tuo padre che ti narrerà… oppure a tuo nonno che ti racconterà’. “Sì, non poteva che venire da qui il titolo più giusto per confezionare il regalo che la vita e la memoria mi hanno fatto, permettendomi di scrivere questo libro”.

I Della Rocca, da duemila anni (con orgoglio) “benè Romì”

rav della roccaRicordo bene l’emozione del giorno in cui, appena adulto, cominciai a spulciare nell’archivio della comunità per ragguagliarmi sulle origini della famiglia Della Rocca. Nessuno come noi ha il culto delle proprie origini, e gli ebrei che si ritrovano a leggere queste pagine lo sanno bene. Dunque non ci potrà stupire più di tanto di fronte a un ragazzo che, a un’età in cui di solito si hanno in testa tutt’altre cose, sacrifica per un po’ esperienze ed emozioni d’altro genere e preferisce mettersi a rovistare nella storia della sua famiglia. Sono nato a Roma il 1 novembre 1933, il 12 di Cheshvan 5694 secondo il calendario ebraico, da Elisabetta Moscati e Rubino Della Rocca. Ciò che volevo scoprire era soprattutto a quando risalisse l’insediamento della mia famiglia paterna a Roma, se provenisse da Eretz Israel, la Terra Promessa, dopo la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme, o vi fosse giunta nel 1492 con l’espulsione degli ebrei dalla Spagna. Un’infantile soddisfazione mi gonfiò il petto: i Della Rocca frequentavano Schola Nova e Schola Tempio – due delle Cinque Sinagoghe, o Cinque Scholae, ognuna con i propri riti specifici in base alla provenienza, sorte a Roma nel 1555 quando papa Paolo IV, su esempio di quanto accaduto una ventina di anni prima a Venezia, aveva ordinato che anche a Roma gli ebrei fossero confinati in un apposito ghetto – entrambe di rito italiano o benè Romi, cioè “figli di Roma”. E questo significava una cosa ben precisa: la famiglia di mio padre era giunta qui dalla terra d’Israele. Come ho potuto apprendere in seguito dalle mie letture, l’appartenenza a una sinagoga piuttosto che a un’altra non riguardava e non determinava solo il rito o le musiche sinagogali, ma gli usi e i costumi, diversi da famiglia a famiglia. Si arrivava a certo, rigido e paradossale senso di esclusività, tanto che una famiglia di origine italiana poteva non volersi imparentare con una di origine spagnola, preferendo non avervi niente a che spartire. In Olanda, al tempo del filosofo Baruch Spinoza (1632-1677), una famiglia ebraica di origine spagnola o di alto lignaggio non avrebbe mai concesso in sposa la figlia a un giovane, magari benestante e di bell’aspetto, ma aschenazita, proveniente cioè dall’Europa centro-orientale, nella gran parte dei casi dalla Polonia. Appartengo dunque a una famiglia che vive a Roma da duemila anni.

Rossana, Roberto e Jonatan: la famiglia prima di tutto

rav della rocca famigliaIn un pomeriggio afoso, alle 18.45 del 12 agosto 1960, nacque il nostro primogenito. Nella speranza che fosse un maschio, avevamo già scelto il nome. Mio padre, nei momenti di allegria, diceva spesso a mia madre: “Sai, non mi piacerebbe che il nostro nipotino si chiamasse Rubino come me… Roberto! Mi piace Roberto…”. E così chiamammo il nostro primo figlio, rispettando il desiderio del nonno che non ha potuto conoscere. Fin dal nome, io e Rossana abbiamo deciso insieme tutto ciò che ha riguardato i nostri figli, la loro crescita ed educazione. Abbiamo cercato di inculcare loro il valore del rispetto, dell’amicizia, il senso profondo di appartenenza a una comunità, attenti a che riconoscessero l’importanza dello studio e delle buone letture, senza rinunciare a qualche svago. Attraverso i nostri figli, nel corso degli anni, ha potuto ulteriormente cementarsi l’affetto, la stima e il rispetto tra me e mia moglie, insieme alla capacità di condividere tanto i momenti felici quanto quelli difficili. Sono stati di grande aiuto in tutto ciò i miei suoceri, il modo in cui mi hanno accolto fin dal primo momento come un figlio. Il padre di Rossana, Lello Piattelli, provava un effetto addirittura possessivo nei miei riguardi. Era noto nell’ambiente ebraico per la sua grande bontà e il suo amore verso Eretz Israel. Ricordo i tanti sabati mattina trascorsi insieme, dopo la tefillà. Se per un qualunque motivo, un’emergenza, un parente o un amico che richiedeva la mia presenza altrove, ero costretto a salutarlo e allontanarmi, mio suocero metteva su un’espressione contrita da cui trapelava tutto il dispiacere per non poter gustare come al solito quelle due ore mattutine in mia compagnia. Sì, mi voleva bene. E gliene volevo anch’io. Jonatan, il nostro secondo figlio, è nato il 5 gennaio 1965, corrispondente al 2 di Shevat, una giornata miracolosa per noi ebrei romani, chiamata Mo’èd di Piombo. Dal XVIII secolo dell’era volgare è nostra tradizione celebrarla e festeggiarla, omettendo dalla preghiera mattutina e vespertina i brani che riguardano la penitenza e consumando pasti più ricchi del solito. Nel 1753 (anno ebraico 5553), in quel giorno, il “popolino” romano tentò di dare fuoco al “Complesso delle Cinque Scholae”. Fu allora che il cielo, da chiaro e luminoso che era, diventò d’improvviso scuro e plumbeo. Cominciò a piovere e piovve sempre più forte, finché la pioggia finì per spegnere l’incendio, evitando il diffondersi del rogo e un danno assai più grave. Ecco, l’espressione Mo’èd di Piombo vuole ricordare il colore che a un tratto prese il cielo in quella circostanza, e la festa celebra quella ricorrenza. Eventi di questo genere, che hanno il sapore del miracolo, si sono verificati in molti altri posti nel corso dei secoli, dall’Europa dell’Est all’Africa settentrionale, e sono stati catalogati sotto il nome di Purim locali. Il richiamo a Purim serve a ricordare quello che, nella nostra tradizione, è il “miracolo per eccellenza”, quando Ester salvò il suo popolo dallo sterminio.

Le minacce dei neofascisti e quel monito del rav Toaff alla ‘Piazza’ in fermento

Io, che ho trascorso buona parte della mia vita accanto a rav Prato prima e a rav Toaff poi, non posso non dirmi affezionato a entrambi. Nei miei momenti di gioia o di tristezza, o quando mi sono trovato di fronte a una scelta difficile da compiere, ho avuto nell’uno o nell’altro un sostegno e un saggio consigliere. Insieme a mia madre e ai miei fratelli, sono stati loro i punti di riferimento per me più importanti. Molti sono i tratti che accomunano i due Maestri: in primis la provenienza livornese e la versatilità nei confronti delle pubbliche relazioni , oltre a una coscienza ebraica aderente alla tradizione italiana, animata da un profondo sentimento sionista. In Toaff era particolarmente evidente l’influenza del padre, Alfredo Sabato. Gli aveva trasmesso un grande amore per la tradizione. Nei miei momenti di gioia o di tristezza, o quando mi sono trovato di fronte a una scelta difficile da compiere, ho avuto nell’uno o nell’altro un sostegno e un saggio consigliere. Insieme a mia madre e ai miei fratelli, sono stati loro i punti di riferimento per me più importanti. Molti sono i tratti che accomunano i due Maestri: in primis la provenienza livornese e la versatilità nei confronti delle pubbliche relazioni, oltre a una coscienza ebraica aderente alla tradizione italiana, animata da un profondo sentimento sionista. In Toaff era particolarmente evidente l’influenza del padre, Alfredo Sabato. Gli aveva trasmesso un grande amore per la tradizione e lo aveva bene avviato anche allo studio e a un’ottima conoscenza delle materie laiche. Ecco, forse ciò che più differenziava Prato e Toaff era proprio la differente impronta lasciata in loro dalla famiglia d’origine. Toaff, più di Prato, poteva contare su una tradizione familiare di cultura, di gran competenze e ironia, cosa che lo ha aiutato non poco a riscuotere la simpatia e la stima dell’opinione pubblica, non solo quella ebraica. Toaff è riuscito a costruire un rapporto duraturo e a guadagnarsi notevole rispetto da parte di autorità e istituzioni di primissimo piano, sia in Italia che nel resto d’Europa. Nel corso del nostro lungo sodalizio, punteggiato di momenti non sempre facili, ho potuto apprezzare le sue notevoli capacità diplomatiche e ho conosciuto qualcosa in più del suo carattere. Ricordo un particolare episodio risalente al 1958. Ci si preparava alle elezioni politiche, che all’epoca significavano anche accesi comizi nelle piazze. L’onorevole Arturo Michelini, del Msi, aveva infiammato gli animi di migliaia e migliaia di simpatizzanti in un comizio al Colosseo. Molti giovani ebrei, non solo del Ghetto, ma provenienti da vari quartieri di Roma, si erano mobilitati e radunati, pronti a fronteggiare eventuali azioni dimostrative o aggressioni, dopo che già i fascisti avevano profanato le lapidi poste ai lati dell’entrata della sinagoga, sul lungotevere, dedicate ai deportati nei campi di sterminio e alle vittime delle Fosse Ardeatine. Anche se era venerdì sera, rav Toaff e io uscimmo di casa per calmare quei giovani ed evitare che la tensione degenerasse in uno scontro violento. In quell’occasione, però, Toaff pronunciò una frase significativa: “Si può essere una volta stupidi, due volte stupidi, ma non tre volte!”. Lo ripeté a voce alta ai nostri ragazzi. E penso avesse ragione: con i tipi violenti non si può essere sempre concilianti ed educati.

Italia Ebraica agosto 2015

(10 agosto 2015)