J-Ciak – Il quaderno dei gemelli

grande quadernoStrappa un sorriso amaro. L’Ungheria che per bloccare i migranti oggi progetta l’invio dell’esercito e alza una barriera al confine con la Serbia, due anni fa candidava agli Oscar “Il grande quaderno” di János Szász, storia cupissima di due gemelli che durante la seconda guerra mondiale si trovano abbandonati a se stessi in un mondo carico di ferocia. Un film, da oggi nelle sale italiane, che ancora una volta ci racconta quanto la guerra, il razzismo siano brutali, assurdi e disumani. Soprattutto se ad attraversarne l’inferno sono due ragazzini, del tutto simili a quelli che dal Sud del mondo e dalle zone di guerra oggi premono ai confini dell’Europa.

La vicenda de “Il grande quaderno” è tratta dall’omonimo romanzo del 1986 di Agota Kristof che introduce la Trilogia di K. La scrittrice, mancata un paio d’anni prima dell’inizio delle riprese, incontrando il regista aveva più volte sottolineato quanto dolorosa fosse stata per lei la scrittura di quel libro in tanta parte basato sulla sua esperienza personale di rifugiata. E il dolore vuole essere la cifra di questo film che vede i protagonisti, due gemelli di 13 anni – interpretati dai gemelli László Gyémánt e András Gyémánt – costretti a lasciare la famiglia per trovare scampo in uno sperduto villaggio, in casa di una nonna alcolista e crudele che pare uscita da una favola dei fratelli Grimm.

I due dovranno confrontarsi con la crudeltà e l’insensibilità del mondo adulto, con la devastazione della guerra e i primi richiami del sesso in un mondo agli antipodi della comoda casa borghese di Budapest dove sono cresciuti. Per non farsi sopraffare dalla realtà si alleneranno a superare fame, avversità, paure, cercando di fare del loro essere due un punto di forza anziché di debolezza e registrando ogni progresso nel grande quaderno affidato loro dal padre prima della partenza.

Come nel libro della Kristof, János Szász non assegna un nome ai suoi personaggi che si chiamano semplicemente “Madre”, “Padre” “Nonna”, o “Ufficiale”. Gli stessi due protagonisti sono indicati nei titoli di coda come “Uno” e “l’Altro”.

Ne dovrebbe risultare un’allegoria del tempo di guerra. Ma il film, malgrado la bella fotografia di Christian Berger, tra i collaboratori di Michael Haneke ne “Il nastro bianco”, stenta a toccare i toni cupi della favola gotica messa in piedi da Agota Kristof. E non sempre riesce a evitare il sentimentalismo e le tinte patinate che così spesso affliggono i film che narrano la guerra e la Shoah attraverso gli occhi dei bambini.
“Il grande quaderno” in ogni caso è da vedere. János Szász è un regista di valore (tra i suoi lavori passati si segnalano “Woyzech”, “The Witman Boys” e “Opium: Diary of a Madwoman”). E vale la pena soffermarsi sulle dissonanze tra vita e cinema sotto il cielo ungherese. Pensiamo alle ultime misure davanti al flusso dei migranti che, spesso in fuga dalla Siria, risalgono sui Balcani o alla vena rovente di antisemitismo che ancora oggi percorre il paese. Si sorride amaro pensando alla candidatura agli Oscar de “Il grande quaderno” (per la cronaca, fu l’anno in cui vinse “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino). E ancora più amaro ricordando la vittoria a Cannes de “Il figlio di Saul” di László Nemes, esile e disperata storia di un Sonderkommando ad Auschwitz capace di immergerci in presa diretta nel girone più tremendo della Shoah.

Daniela Gross

(27 agosto 2015)