“Un’enciclopedia degli ideali”
Chimica e testimonianza della deportazione, scienza e antropologia, biologia ed etologia, ebraismo e idee politiche, e poi tutte le più diverse forme letterarie, dall’autobiografia al romanzo, dal saggio alla poesia. Non manca niente di tutto questo nell’opera e nella persona di Primo Levi, la cui figura viene analizzata da ognuno di tali punti di vista nel lavoro di Belpoliti. Un’uscita molto attesa: Claudio Gallo sulla Stampa ha pubblicato alcuni stralci significativi da cui emerge la poliedricità della figura di Levi attraverso la descrizione di alcune fotografie presenti nel libro, mentre sull’Espresso Wlodek Goldkorn ha effettuato un’approfondita analisi dei contenuti in un certo senso rivoluzionari dell’opera di Belpoliti. Il quale, per citare proprio le parole di Goldkorn, “usa le oltre settecentotrenta pagine e il suo bagaglio pluridecennale di studioso di letteratura per dire una cosa semplice: Levi prima di tutto è stato un grande scrittore; uno dei più grandi del secolo scorso, non solo tra gli italiani ma in assoluto”.
Troppo spesso considerato solo in quanto testimone degli orrori della Shoah, Primo Levi si ripresenta dunque in queste pagine in tutta la sua grandezza di autore di letteratura, che lui stesso non aveva mai sottovalutato, definendosi come uno “scrittore non scrittore”. Scrive Belpoliti: “È un chimico di successo, se così si può dire. Entrato nel 1948 alla Siva, industria chimica specializzata in smalti isolanti per condutture elettriche, ne è diventato il direttore tecnico nel 1950, poi nel 1962 direttore generale. Ma non ha mai cessato di pensare di diventare scrittore a tempo pieno, come ha scritto nel 1959 al suo traduttore tedesco Heinz Riedt: si augura d’andare presto in pensione per farlo”. Partendo da questo presupposto, si può riconsiderare tutta la produzione di Levi, a partire dalla vicenda cruciale della mancata pubblicazione di “Se questo è un uomo” da parte di Einaudi nel 1947 (lo pubblicò solo undici anni dopo). Anziché legarlo come da opinione più diffusa all’indisponibilità dei lettori dell’epoca ad ascoltare la testimonianza in tempi non ancora maturi, Belpoliti suggerisce, scrive Goldkorn, “che il rifiuto dello stupendo – proprio dal punto di vista stilistico – libro di Levi, fosse dovuto a motivi stilistici, appunto. E qui sono fondamentali i riferimenti linguistici e letterari. Levi, dice Belpoliti, deve tutto a Manzoni ed è in forte debito con Leopardi e Dante, questo ultimo non solo in quanto autore del ‘Canto di Ulisse’ che gli permette di sopravvivere spiritualmente nei lager, ma proprio come fondatore della lingua italiana”.
“Levi – continua dunque Goldkorn – usa un linguaggio classico, estremamente ben strutturato e dove nonostante la materia autobiografica è evidente la distanza tra l’autore e il testo”. Belpoliti conclude dunque che la sua opera non fosse conforme ai canoni dell’epoca, la seconda metà degli anni ’40, legati da una parte al neorealismo dall’altro a sperimentazioni di stampo modernista, e per questo messa in un angolo.
Il primo riconoscimento di tale straordinaria dignità letteraria arriva nel 1963, con la vittoria del premio Campiello per “La tregua”. Si tratta, scrive Belpoliti citato dalla Stampa, della “prima conferma del suo talento di scrittore. Per quanto il libro sia una continuazione di ‘Se questo è un uomo’, la parte centrale è la storia di un viaggio avventuroso ricco di episodi picareschi. Sono trascorsi poco meno di vent’anni dal ritorno da Monowitz-Auschwitz, e solo cinque dalla riedizione del suo primo libro presso Einaudi. Levi è ora un chimico che scrive, oltre naturalmente a un testimone dei campi nazisti”.
Ma sia Gallo sia Goldkorn sottolineano che il libro di Belpoliti costituisce una vera e propria “enciclopedia” di Levi, che emerge dunque come uomo con degli ideali, padre di famiglia, chimico in pensione finalmente scrittore di professione con una barba che gli conferisce un’aria da vecchio saggio, quasi da profeta, per quanto Levi aborrisca questa possibile definizione: non gli piacciono i profeti, come osserva il critico letterario in uno stralcio riportato su La Stampa. Goldkorn ricorda poi che il libro si sofferma molto sul lato ebraico di Levi: “Il suo era un ebraismo laico, illuminista, critico nei confronti delle politiche dei governi dello Stato d’Israele e contrario alla sacralizzazione della Shoah, alla trasformazione della memoria in un rito”.
Ma nessuna di quelle sue molteplici identità è lineare e univoca, sottolinea Belpoliti. Come definire dunque Primo Levi? Difficile, ma si può provare a farlo attraverso i suoi libri. “Libri che – la conclusione di Goldkorn – parlano della vita di ciascuno di noi”.
Francesca Matalon twitter @fmatalonmoked
(27 agosto 2015)