Levi, le Alpi e la libertà di sbagliare

primo levi“Non sono mai stato un grande alpinista, un grande sciatore, però si andava in montagna”. Sono parole di Primo Levi, raccolte da Giovanni Tesio in una intervista inedita e riprese da una mostra organizzata dal Centro di studi Primo Levi di Torino in collaborazione con la cooperativa Mines de Cogne e il Comune di Cogne. “Le Alpi di Primo Levi. La mia trasgressione era la montagna” raccoglie testi e fotografie che ricostruiscono lo storico rapporto dello scrittore con le Alpi. In mostra compaiono anche alcuni brani di una intervista fatta a Levi da Alberto Papuzzi nel ‘66 e apparsa sulla Rivista della Montagna, che qui riproponiamo integralmente.

La salita alla Torre del Gran San Pietro per la cresta sud ovest prevede una variante, tuttora citata nella Guida del Gran Paradiso di Andreis, Chabod, Santi: la variante percorsa da Alessandro Delmastro, con la sorella Gabriella, l’11 luglio 1938. Delmastro è quel Sandro al quale Primo Levi ha dedicato il capitolo del ferro nel suo libro Il sistema periodico.
«Era un ragazzo di statura media, magro ma muscoloso, che neanche nei giorni più freddi portava mai il cappotto. Aveva grandi mani callose, un profilo ossuto e scabro, il viso cotto dal sole». Sandro, racconta Levi, sembrava fatto di ferro, ed è con lui che ha vissuto le più belle avventure di montagna e di arrampicata. Allora Primo Levi era uno studente di chimica, che il sabato e la domenica sgambava sulle cime del Gran Paradiso, d’inverno s’inzuppava di neve con gli sci, e nelle mezze stagioni si cimentava con le rocce dei Picchi del Pagliaio, dei Denti di Cumiana, di Rocca Patanüa, del Plü e della Sbarüa, palestre torinesi alcune diventate classiche altre ormai dimenticate, a quel tempo frequentate da pochi coraggiosi o stravaganti, in calzoni alla zuava e vecchi scarponi.
Allora… Oggi Primo Levi è uno scrittore famoso in tutto il mondo, e tra le bianche pareti di una stanza della casa editrice Einaudi (che ha pubblicato tutti i suoi libri) ci guarda con un sorriso gentile appena sfiorato dall’ironia, poiché certo è un poco meravigliato di essere intervistato, per la prima volta, sulle sue esperienze e imprese alpinistiche, che non hanno alcunché di straordinario se non di essere parte della sua storia: della storia d’un uomo.
«Ho cominciato ad andare in montagna a 13, 14 anni – racconta Levi. Nella mia famiglia c’era la tradizione della montagna che fortifica, un po’ l’ambiente che Natalia Ginzburg descrive in Lessico famigliare. Non l’alpinismo propriamente detto, non le scalate… Si andava in montagna così, per il contatto con la natura… ». Gli capitò subito, dalla prima volta, una «negrigura», come avrebbe detto un altro Levi, appunto il padre di Natalia Ginzburg. «Ero a Bardonecchia e avevamo deciso di fare un giro, io che avevo 14 anni, un mio coetaneo e un altro ragazzo che avendone sedici di anni si era autonominato guida. L’idea era di arrivare in Valle Stretta per la Catena dei Magi. Solo che partimmo di pomeriggio, senza mangiare, senza zaini. Arrivammo in cima che ormai faceva quasi buio; si vedeva sotto una discesa infida, e in fondo il lumino di un rifugio, non ricordo più il nome. Ci mettemmo a gridare, e venne su una squadra di alpinisti. Gridarono giù: son solo dei gagno brodos… Poi ci legarono come salami e ci calarono di notte, alla luce delle lanterne».
Le prime arrampicate verso i 18, 19 anni, per un desiderio di avventura ma anche di indipendenza, per provarcisi, per fare da sé: «Volevo andare in montagna sul serio, ma non con la guida». Un desiderio che si combinava col clima di allora, che era il clima del regime fascista, e per Levi, ebreo, delle leggi razziali. Che cosa significava, dunque, andare ad arrampicare e andarci da solo, per quel giovane ebreo della Torino fine Anni ’30? «Era una forma assurda di ribellione – risponde Levi – Tu, fascista, mi discrimini, mi isoli, dici che sono uno che vale di meno, inferiore, unterer: ebbene, io ti dimostro che non è così. Mi ero subito promosso capocordata, senza esperienza, senza scuola: devo dire che l’imprudenza faceva parte del gioco.
La prima volta, da solo, fu all‘Herbetet, per la cresta est. Neppure col CAI avevamo rapporti, nel nostro gruppo. Era un’istituzione fascista e noi eravamo antistituzionali: la montagna rappresentava proprio la libertà, una finestrella di libertà. Forse c’era anche, oscuramente, un bisogno di prepararsi agli eventi futuri».
Questo del prepararsi, dice Levi, era chiarissimo in Sandro Delmastro. La sua era la montagna ruvida e proletaria. Era di famiglia antifascista, con un retroterra ideologico, mentre Levi era un bravo ragazzo borghese. Su come sarebbe finita – cioè «a botte», per dirla con Levi – Delmastro non aveva dubbi. Gli ebrei borghesi, invece, si rifiutavano di guardare l’avvenire, prigionieri di un pacifismo pigro, anche pauroso. Delmastro diventa la proiezione a posteriori delle tensioni e degli ideali che allora Levi sentiva solo confusamente e che oggi invece vede con una lucidità astratta. E l’alpinismo di Delmastro, rivisto adesso, come in una muta sequenza al rallentatore, è la metafora viva di quella rappresentazione, con quel suo rifiuto de le comodità, delle mode, del consumismo, col suo essere «d’altri tempi già allora».
«Al Sestriere non s’andava mai, perché c’erano le funivie, e le funivie erano peggio del demonio! Niente giacche imbottite, niente scarpe nuove, la guida del CAI serviva solo per fare l’opposto di quanto consigliava. Anche l’attrezzatura era minima: mia sorella mi aveva regalato un martello, un paio di moschettoni e tre chiodi. Questa era tutta la mia attrezzatura. Bisognava invece arrivare sempre al limite delle nostre forze, sia fisiche sia tecniche. Ricordo una Pasqua, quando Daladier aveva risposto jamais a Mussolini. Voleva dire la guerra, ma noi non ci pensavamo. Partii con Delmastro e con Alberto Salmoni, a piedi di notte da Bard a Champorcher: il giorno dopo, con gli sci, e con 30 chili a testa negli zaini, dovevamo traversare fino alla cosid- detta Finestra di Champorcher, poi scendere, risalire la Valleille, raggiungere Piantonetto, puntare sul Gran Paradiso… Era un‘idea di Delmastro, il quale più si faticava più era soddisfatto. Io rinunciai già a Cogne».
Era l’ideologia alpinistica di Lammer: lo sprezzo euforico del pericolo, la montagna come sofferenza. «Sì, anch’io avevo letto Lammer – dice Levi – Fontana di giovinezza, e anche Whymper e Mummery. Attraverso quelle pagine era pervenuta fino a noi l’idea di misurarsi sempre con l’estremo e che essenziale è fare sempre il massimo». Tuttavia, l’ideologia romantica conviveva con l’ideologia positivista. Le ragioni di Levi, ma anche di Delmastro, rispetto alla montagna, erano l’una e l’altra cosa insieme. Il romanticismo lammeriano era contaminato da un gusto laico per la montagna come oggetto scientifico, come luogo dove cercare di ravvisare il mondo alle sue origini. Sia Levi sia Delmastro avevano la passione della chimica. «Pensavo di trovare nella chimica – dice Levi – la risposta agli interrogativi che la filosofia lascia irrisolti. Cercavo un’immagine del mondo piuttosto che un mestiere. Ora, la passione della montagna era complice della passione per la chimica, nel senso di ritrovare in montagna gli elementi del sistema periodico, incastrati tra le rocce, incapsulati tra i ghiacci, e cercare di decifrare attraverso essi la natura della montagna, la sua struttura, il perché della forma di un canalino, la storia dell’architettura di un seracco. Una volta, ai Picchi del Pagliaio, Sandro si attacca a un appiglio cristallino che però gli rimane nelle mani. Me lo fa vedere senza scomporsi, dicendomi: si sfalda, che è la terminologia delle operazioni stereografiche, poiché i cristalli si identificano dal loro modo di sfaldarsi.
Per cui la montagna per noi era anche esplorazione, il surrogato dei viaggi che non si potevano fare alla scoperta del mondo, e di noi stessi; i viaggi raccontati nelle nostre letture: Melville, Conrad, Kipling, London. L’equivalente casalingo di quei viaggi era l’Herbetet».
In montagna, Primo Levi ha continuato ad andare anche dopo la guerra, dopo il ritorno da Auschwitz, dopo aver scritto quel libro che è la più alta testimonianza letteraria della condizione umana di fronte alla violenza di uno sterminio di massa, Se questo è un uomo. Andava a camminare, o con gli sci; non più ad arrampicare, salvo una volta che ha affrontato alcuni passaggi di terzo, da solo, su un versante della Testa Grigia, sopra Gressoney: «Volevo dimostrare a me stesso che ero ancora capace, anche se avevo ormai più di quarant’anni».
Ma le radici del suo rapporto con la montagna sono ben piantate in quella stagione più lontana: radici intellettuali di cittadino che cercava sulla montagna, nella montagna, suggestioni e risposte che non trovava nella vita, o meglio nell‘atmosfera ispessita di quella vita torinese, senza passato e senza futuro. Con le generazioni precedenti, i Monti, i Mila, i Foa, non c’erano rapporti, come fosse caduto un netto colpo di falce, mentre l’avvenire era vestito dell’impenetrabile conformismo delle adunate oceaniche e del mito della razza. «Avevo anche provato a quel tempo a scrivere un racconto di montagna» ricorda ora Primo Levi, con una punta di divertimento. «Non l’ho mai finito, è rimasto inedito e tale resterà, perché tutto sommato è proprio molto brutto. C’era tutta l’epica della montagna, e la metafisica dell‘alpinismo. La montagna come chiave di tutto. Volevo rappresentare la sensazione che si prova quando si sale avendo di fronte la linea della montagna che chiude l’orizzonte: tu sali, non vedi che questa linea, non vedi altro, poi improvvisamente la valichi, ti trovi dall’altra parte, e in pochi secondi vedi un mondo nuovo, sei in un mondo nuovo. Ecco, avevo cercato di esprimere questo: il valico. Poi avevo letto il racconto ai miei amici: valeva poco». Dopo l’8 settembre 1943, il suo valico Primo Levi andò a cercarlo di nuovo in montagna, e non si trattava questa volta di metafisica, ma di schierarsi e di battersi. Come si usa, fu catturato quasi subito e rinchiuso in campo di concentramento. Il suo amico e compagno di cordata, Sandro Delmastro, fu il primo caduto del Comando militare piemontese del Partito d’azione, a Cuneo.
Una delle più belle avventure insieme era stato un bivacco in quota, in pieno inverno, con i piedi nei sacchi e «le scarpe talmente gelate che suonavano come campane». Come faremo a scendere? Aveva domandato Levi all’amico, quando sugli ultimi tratti di salita già calavano le ombre dell’oscurità. Per scendere vedremo, aveva risposto Delmastro, aggiungendo: il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso. Era questa la carne dell’orso: il bivacco imprevisto, nella notte gelata. Rievocando l’episodio in una delle pagine più belle e commosse del Sistema periodico, Primo Levi scrive: «Ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino».
Sono state scritte e dette molte cose, moltissime, sul significato della montagna, dell’alpinismo, dell’arrampicata, ma niente di più semplice di queste parole: liberi anche di sbagliare e padroni del proprio destino.

Alberto Papuzzi

(Pagine Ebraiche settembre 2015)

(27 agosto 2015)