Il tempo a venire

vercelliOgni generazione si pensa come l’ultima al mondo. Parrebbe in tale modo volere ammonire gli inconsapevoli interlocutori, gli incolpevoli astanti, commentando i cambiamenti che rischiano di sopraffarla, e che comunque da sé non riesce a capire, battendo il tasto del: “dopo di noi, il diluvio!”. Quasi a volere celebrare una sorta di sua indispensabilità. Non è così. Tuttavia, al medesimo tempo, neanche la convinzione che le cose debbano rimanere sempre uguali a loro stesse o, per dire fiduciosamente, siano destinate a cambiare in positivo, si rivela, alla resa dei conti, fondata. Il catastrofismo delle Cassandre, dei profeti compiaciuti di sventura, si sposa con l’incondizionato e ingenuo ottimismo dei progressisti indefessi. Rendendo opache sia la visuale di campo che lo sguardo prospettico. Dinanzi ai mutamenti, in via di accelerazione e di accumulazione (una miscela che rischia di rivelarsi pericolosissima poiché si basa sul rinforzo reciproco dei due fenomeni) in corso nell’area del Mediterraneo, l’Europa e gli europei si stanno rivelando non solo impreparati ma anche incapaci di pensare oltre al proprio abituale orizzonte. Non finisce il mondo, sia ben chiaro. Finisce semmai ‘questo’ mondo, mutuato dal bipolarismo e dal suo tramonto (la cosiddetta «fine della storia»), dove i conflitti guerreggiati, e le grandi transumanze di popolazioni, avvenivano comunque, purtuttavia a distanza di sicurezza dai nostri occhi.
Basti pensare alla faticosità e alla complessità degli eventi che si accompagnarono alla decolonizzazione, per esempio nel Sud-Est asiatico così come in Africa. Accadevano, ma non ‘in casa nostra’. Dopo di che, la guerra in Jugoslavia, ed in particolare il truce conflitto bosniaco-erzegovino, negli anni Novanta, si erano già incaricati di dimostrarci come non avesse alcun fondamento l’assunto per il quale le cose più sgradevoli e raccapriccianti (di cui ben sapevamo, consegnandole però, nel retrobottega dei nostri pensieri) fossero una prerogativa esclusiva di luoghi lontani e di comunità ‘premoderne’. Del pari ad un’altra guerra civile frettolosamente dimenticata, quella algerina, consumatasi in un arco di tempo contiguo, tra la fine degli anni Ottanta e il decennio successivo, quella jugoslava, infatti, ci diceva che non eravamo per nulla immunizzati dagli sconvolgimenti in corso. Il Mediterraneo ne era già scenario. Il radicalismo islamista, tra gli altri fenomeni, germinava proprio in quei contesti a noi così vicini. I territori della ex-Jugoslavia, d’altro canto, non potevano essere liquidati come culturalmente, politicamente, geograficamente e umanamente distanti, ovvero appartenenti ad una sorta di Levante barbarico. Erano Europa a tutti gli effetti mentre la guerra si consumava alle porte di casa nostra, con il medesimo concorso di alcuni paesi di quella che di lì a non molto si sarebbe celebrata come l’Unione continentale.
Facemmo perlopiù spallucce, all’epoca, e cerchiamo di continuare a farle anche adesso, dinanzi ad un’onda di piena che se non ci travolgerà completamente è tuttavia destinata a cambiarci profondamente. Quanto meno nel corso del tempo, in una o due generazioni. Poiché è oramai evidente, quanto meno a chiunque non voglia nascondere la testa sotto la sabbia, che le migrazioni in atto sono un vero e proprio processo di travaso di popolazioni dalle diverse aree di crisi, ormai divenute perenni, al nostro Continente. Si chiami tutto ciò come meglio si crede, ma le immagini di interi nuclei famigliari che si accalcano alla frontiera macedone, tanto per citarne alcune tra le molte possibili, ci confermano che è questa la natura, oramai, del processo in atto. Si tratta di una dimensione epocale, che viviamo come ‘emergenza’ perché non siamo capaci di dare ad essa una risposta politica. La scelta di erigere muri o barriere di sicurezza, in tale caso, può soddisfare esigenze temporanee ma è illusoria sul piano delle misure di lungo periodo. Le quali non debbono rispondere solo a logiche di sicurezza e di governo dei flussi ma ad una più generale visione d’insieme del futuro. In quali società intendiamo vivere? L’Europa è demograficamente ‘vecchia’, mentre i paesi d’origine di molti dei migranti sono composti da ampi segmenti di popolazione giovane. Questo è un primo punto. Ma non basta. Non siamo pronti ad affrontare il mondo ‘che viene’ poiché non capiamo che i mutamenti in atto non sono solo esogeni, esterni, prodotti essenzialmente dalle pressioni, sempre più corpose, di grandi masse di popolazioni alla ricerca di nuove mete, ma anche endogeni, interni, ovvero derivanti dalle trasformazioni che coinvolgono le nostre stesse società, a partire dal lavoro e dalla sua funzione sociale.
Le une cose si incontrano con le altre, si sommano, si influenzano vicendevolmente. Fatichiamo o non riusciamo a capire il senso degli eventi, rintanandoci piuttosto nel già detto, nella ripetizione di cliché tanto rassicuranti quanto inefficaci, poiché il mutamento in atto chiama in causa sia gli equilibri che ritenevamo consolidati, assodati una volta per sempre (e che invece stanno subendo uno stravolgimento progressivo ma costante), sia gli strumenti con i quali interpretiamo la nostra realtà. Rendendo sempre meno praticabili i primi e sempre più inefficaci i secondi. Fondamentale considerazione a latere: «una delle contraddizioni insite nel processo attuale di globalizzazione rimane […] l’integrazione degli individui: caratteristica quest’ultima che non coincide pienamente con l’apertura delle frontiere dei flussi commerciali e finanziari. Milioni di persone, in un modo o nell’altro, hanno beneficiato e beneficiano di questo mondo globalizzato: professionisti, viaggiatori, studenti, organizzazioni non governative, intermediari, investitori, brokers sono tutti parte integrante di un mondo globalizzato più vicino. Ma, allo stesso tempo, milioni di cittadini del villaggio globale e interconnesso sono ogni giorno più isolati, per restrizioni alla loro mobilità, e si scontrano con disuguaglianze nell’accesso alla migrazione estremamente forti» (così Salvatore Monni e Federica Zaccagnini). Alla maggiore libertà formale di movimento corrispondono, per molte persone, vincoli ancora più profondi di quanto già non fossero nel passato. Quindi insuperabili, nel suo effettivo esercizio. Questi vincoli sono legati alla diseguale distribuzione delle opportunità di cambiamento del luogo e delle modalità di vita. Il paradosso vigente è che in un mondo globale, dove si chiede ai più di essere ‘flessibili’ e quindi ‘mobili’, tanti individui sono costretti a non potersi liberare della morsa del territorio, ovvero dei posti nei quali sono nati, cresciuti e dei quali adesso si sentono prigionieri. Per mancanza di lavoro, di libertà, di futuro, anche di identità. Cristallizzati dentro un destino che non si sono per nulla scelti, semmai inchiodandoli al muro dell’impotenza. Mille filtri si frappongono tra di loro e quel ‘mondo’ che la globalizzazione presenta invece come costantemente interconnesso, continuamente aperto a nuove esplorazioni. Tutto questo si incontra con il declino delle sovranità nazionali nelle regioni turbolente dell’Africa e dell’Asia. Il tempo a venire è quello che raccoglie e coniuga questo insieme di spinte contradditorie, tanto più problematiche dal momento che non esiste nessuna governance internazionale. Né, parrebbe, che qualcuno intenda farsene carico. Poiché gli organismi che nel tempo si sono dati questa missione, sono oggi inani e imbelli, come dei giganti d’argilla, parte essi stessi del problema che avrebbero invece dovuto contribuire ad affrontare. “Ognuno per sé ed io contro tutti”, sembrerebbe essere la morale di molti. Ma se così è già – e ancora lo sarà in futuro -, inutile allora lanciare alti lai contro un passato terribile, dal quale ci siamo consapevolmente dissociati, per poi accettare come ineluttabile un presente che si fa, di giorno in giorno, sempre più indifferente al destino dell’umano. Tra la pornografia politica dei tagliagole dell’Isis e i cadaveri dei morti soffocati in un tir abbandonato in Austria ci sono più legami e connessioni di quanto non siamo disposti a riconoscere. Rifuggendo, in tale modo, dalla nostra inettitudine, che si specchia nell’anonimato dei tanti morti, riflettendo integralmente l’indifferenza politica di tante classi dirigenti.

Claudio Vercelli

(30 agosto 2015)