J-Ciak – Il maestro e i migranti
La sincronia è perfetta. Mentre i migranti premono ai confini dell’Europa e la Germania apre loro le porte, il maestro del documentario Frederick Wiseman porta sul grande schermo i difficili equilibri e le strepitose possibili armonie del vivere insieme. Nella pellicola “In Jackson Heights”, il suo nuovo lavoro presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia, il regista ebreo-americano ci racconta il quartiere più multiculturale che c’è.
A Jackson Heights, Queens, New York, si parlano 167 lingue. Gli immigrati dal Sud America e dal Messico convivono con quelli che arrivano da Pakistan, Afghanistan, India, Cina, Bangladesh. I residenti di lungo corso sono per lo più figli o nipoti di immigrati e i gay sono una presenza significativa (proprio all’inizio si incontra un gruppo di sostegno per gay anziani nella periodica riunione al locale Centro ebraico).
Più diversi di così non si può. E funziona. La chiave, ci mostra Wiseman, è un lavoro di comunità impensabile in altre parti d’America, dove l’individualismo è re. Sono infatti i volontari, le associazioni, le realtà religiose, il magnifico collante che tiene insieme questo mondo diseguale con una rete di corsi, incontri e attività che aiutano i migranti a districarsi con la lingua, le abitudini, le regole di cittadinanza e a costruirsi un futuro.
Frederick Wiseman, che lo scorso anno si è aggiudicato il Leone d’oro alla carriera, applica al quartiere il suo celebre ‘trattamento’. La mano del regista – ha spiegato più volte – inevitabilmente si sente, nel modo in cui sono arrangiate le scene e soprattutto nell’editing finale. Per il resto si toglie di scena e lascia parlare i luoghi, le persone, i dettagli. È una scelta che richiede una pazienza certosina, un occhio attento e la voglia di lasciar spazio agli imprevisti e farsi sorprendere. Non a caso Wiseman gira per mesi. Solo per realizzare l’ultimo lavoro gli ci sono volute nove settimane che hanno fruttato 190 minuti di documentario.
Negli ultimi cinquant’anni ha raccontato così le grandi istituzioni sociali del nostro tempo: l’ospedale psichiatrico, il tribunale minorile, la compagnia di balletto e due altre comunità – il paradiso degli sciatori “Aspen” e “Belfast, Maine” – che con “In Jackson Heights” compongono una trilogia. Lo scorso anno è stata la volta della “National Gallery”, tre ore di girato in cui, quasi per magia, il grande museo londinese prende vita attraverso i suoi quadri e le persone che ogni giorno ci lavorano e lo visitano.
Nel caso di Jackson Heights il maestro ci conduce in un microcosmo di negozi dalle insegne in lingue differenti e ristoranti di ogni tipo. Entriamo in una macelleria halal, nel negozio di un’estetista indiana, in una lavanderia automatica dove si aspetta e si fa musica. Ascoltiamo il suono di lingue diverse (una buona metà del film è in spagnolo). Ed entriamo ancora, a toccare un livello più profondo. Facciamo ingresso nelle aule dove si studia, nelle riunioni di quartiere, nei gruppi di preghiera: in quell’universo che fa di Jackson un quartiere e non un semplice aggregato di case e persone.
I protagonisti, dal punto di vista di Wiseman, sono gli uomini e le donne che ogni giorno s’impegnano perché la comunità sia possibile, eroi che lavorano sottotraccia per far sì che ciascuno eserciti i suoi diritti. Per dirla con le parole che lo stesso regista aveva premesso al documentario “Berkeley”, “È importante per un filmmaker mostrare al lavoro persone di intelligenza, carattere, tolleranza e buona volontà, tanto quanto è importante fare film sui fallimenti, l’insensibilità e la crudeltà di altri”.
Difficile non intravedere l’esperienza di Wiseman che più volte ha ricordato come, nella sua infanzia a Boston, “l’antisemitismo era ovunque” e la discriminazione sempre dietro l’angolo. Difficile non pensare alle dolenti colonne di profughi che oggi cercano scampo in Europa.
Daniela Gross
(10 Settembre 2015)