Traditori cercansi, meglio se ebrei
Quando una storia non fa la Storia

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Via San Nicolò 30 – Traditori e traditi nella Trieste nazista è il titolo del libro che le edizioni Il Mulino mandano in libreria domani, giovedì 17 settembre. Nel testo il giornalista Roberto Curci evoca fra l’altro le vicende del delatore ebreo triestino Mauro Grini che favorì l’arresto e la deportazione di molti altri ebrei italiani. Il giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche tratterà l’argomento con molti servizi nel suo numero di ottobre, in distribuzione nelle prossime settimane. Anticipiamo in questo notiziario quotidiano una nota del direttore della redazione e l’analisi di due storici italiani, Anna Foa e Simon Levis Sullam, che hanno dedicato molti studi agli anni delle persecuzioni e delle deportazioni.

Nell’autunno del 1943, quando la politica dell’odio antiebraico fortemente voluta dal regime fascista aveva ormai raggiunto le sue inevitabili, estreme conseguenze, ognuno dei 39 mila ebrei italiani era nell’immediato pericolo di vita.
Almeno 7291 di loro trovarono la morte nei mesi seguenti. Molti, molti altri avrebbero subito la stessa sorte se non fossero stati tratti in salvo dal coraggio di alcuni cittadini, di alcune istituzioni religiose cattoliche e soprattutto del governo della Confederazione elvetica, unica istituzione democratica superstite in un’Europa continentale ormai in fiamme, che aprì le frontiere per dare riparo ad almeno seimila ebrei italiani.
Le forze occupanti tedesche procedettero alle prime retate fra il settembre e il novembre del 1943, sulle base delle informazioni ottenute dalle autorità italiane, che dal 1938 si erano dedicate a schedare i cittadini ebrei presenti in Italia. In quelle settimane oltre 2500 persone furono deportate.
Da allora in poi la quasi totalità degli ebrei superstiti fu costretta a entrare in clandestinità e gli arresti che seguirono, la deportazione di altri 5000 esseri umani, fu operata grazie alla consolidata pratica della delazione che il regime fascista aveva inoculato da anni nella popolazione.
Furono migliaia i delatori che per odio o per interesse favorirono la cattura di ebrei alla ricerca di un riparo. Furono migliaia, e appartenenti a ogni strato sociale, a ogni ambiente culturale e ben rappresentativi di come era stata degradata la società italiana dalla dittatura fascista.
Fra migliaia e migliaia, due di essi, una donna a Roma e un uomo a Trieste, erano ebrei. Due su 39 mila, forse ancora qualcuno, anche se altri nomi evocati a Roma non portarono effettivamente ad alcun esito nelle indagini, collaborarono attivamente per favorire l’arresto dei loro fratelli, li tradirono e li mandarono a morte. Probabilmente agirono come gli altri delatori, perché anche gli ebrei italiani sono italiani come gli altri, con le loro debolezze, le loro contraddizioni e le loro vigliaccherie, per avidità e per odio. E nel loro caso si può forse ritenere che agirono anche nella speranza di avere salva la vita.
Perché stupirsene? Due fra 39 mila ebrei, due su migliaia di delatori cattolici, non sono un gran numero. E se fossero stati sei non cambierebbe gran cosa. Non dimostrano proprio nulla, se non il male devastante che il fascismo portò all’Italia, il tradimento delle istituzioni nei confronti dei propri cittadini ebrei, la vigliaccheria della maggioranza.
E intanto tutto il mondo è andato avanti. L’Europa civile, a cominciare dalla Germania, ha imparato a fare seriamente i conti con il proprio passato, a chiamare le cose con il proprio nome.
Non proprio tutto il mondo. Ci sono anche le eccezioni, e fra le eccezioni ci siamo noi. Se altrove il processo di maturazione e di pulizia ha fatto molta strada, a casa nostra, con i negazionisti alle porte, siamo appena ai primi timidi tentativi. Una politica perseguita coerentemente da ogni governo già dal 1944, poi dalla frettolosa amnistia Togliatti del governo De Gasperi nel 1946, il primo provvedimento di questa natura ad essere adottato nell’Europa liberata, quando i criminali che avevano operato nelle strutture del fascismo e collaborato con l’occupante tedesco furono lasciati liberi. Ben pochi, dopo i primi atti di sommaria giustizia partigiana, pagarono per le loro colpe. E men che meno i delatori, perché aprire un processo serio al fenomeno della delazione di massa, sotto il profilo giudiziario come anche sotto il profilo dell’analisi storica, comporterebbe necessariamente la conseguenza di demolire il mito dell’innocenza italiana, degli “italiani brava gente” che solo rari e timidi segnali hanno finora contraddetto.
Una circolare del giugno 1946 emanata dal ministro degli Interni, il socialista Giuseppe Romita, metteva una pietra sulla possibilità di fare chiarezza sulle responsabilità italiane. L’Italia doveva essere vittima innocente di un male venuto da altrove, e “le iniziative italiane in materia di razza non solo non erano spontanee, ma cessarono di avere un carattere puramente formale solo dal momento in cui l’applicazione delle misure antisemite passò sotto il controllo degli invasori tedeschi”.
Per questo le migliaia di delatori possono essere dimenticate, ma quei due delatori ebrei no. E non stupisce come l’industria editoriale coronata e benpensante, così restia a pubblicare saggi e ricerche coraggiose sulle responsabilità italiane, le responsabilità del regime, dello Stato e della popolazione, si dimostri invece ansiosa di mettere in evidenza le vicende di quel paio di sventurati.
Sarà la ricerca del sensazionalismo, sarà la crisi che colpisce in pieno anche i bilanci di editrici blasonate e cattoilluminate, sarà un certo clima di riduzionismo, se non di negazionismo storico e la tentazione di giocare con il fuoco di un umore nuovamente maldisposto nei confronti della presenza di culture altre, di una diversità autentica e ben radicata nelle vicende italiane. Per le migliaia di delatori solo silenzio e omertà.
Eppure il caso di Celeste Di Porto, la giovane romana che favorì l’arresto di altri ebrei e finì sotto processo nel 1947, ha meritato invece cronache, saggi e anche romanzi. E la stessa sorte tocca oggi anche al triestino Mauro Grini, che nel 1947 fu condannato in contumacia per i suoi abominevoli misfatti alla pena capitale dalla Corte d’assise di Milano. Di lui si occupa ora, con Via San Nicolò 30, edito da Il Mulino, il giornalista Roberto Curci, che in un libro ben congegnato e scritto ancora meglio, rievoca molti fantasmi ancora oggi presenti nel groviglio di identità e di storia avviluppato attorno alla città giuliana.
Fatti noti, abilmente e scrupolosamente ricostruiti e molto ben raccontati con un lavoro perfettamente legittimo, che dovrebbe essere letto e accolto favorevolmente. Pagine che fanno male soprattutto perché mettono in evidenza quello che manca: la storia e i destini delle migliaia di delatori italiani che mandarono a morte migliaia di ebrei concittadini aspetta ancora di essere scritta. Le responsabilità della struttura pubblica, le ambiguità di alcuni componenti della stessa Resistenza e della classe politica del primo dopoguerra anche.
In un saggio illuminante, La delazione degli ebrei. Una memoria silenziosa nell’Italia repubblicana 1944-1961, la ricercatrice italiana Paola Bertilotti della Scuola normale superiore di Lione, racconta non solo le venature antisemite disseminate dalla stampa cattolica che seguì il processo Grini (il quotidiano democristiano “Il Popolo” rievocava l’immagine dell’ebreo-giuda titolando il 4 marzo 1947 “La Corte d’assise straordinaria s’è pronunciata: l’ebreo traditore è stato condannato a essere fucilato nella schiena”, un linguaggio che allora suscitò qualche perplessità, mentre nelle ammiccanti disinvolture della stampa nazionale contemporanea passerebbe probabilmente del tutto inosservato), ma anche dell’antisemitismo che ancora inquinava le strutture pubbliche.
“Appare evidente – si legge nel saggio – che il processo di epurazione contro i delatori non incitò la stampa italiana a un’analisi approfondita delle responsabilità nazionali nella campagna antisemita. Del resto, la pratica della denuncia degli ebrei all’Amministrazione pubblica si perpetuò nell’Italia dell’immediato dopoguerra. A seguito di un attentato perpetrato da agenti dell’Irgun il 31 ottobre del 1946 contro l’ambasciata britannica a Roma, la polizia italiana sottomise i cittadini ebrei italiani e i rifugiati ebrei stranieri a una intensificata sorveglianza. In questo contesto di tensione, la Direzione generale della pubblica sicurezza poté intraprendere con il massimo scrupolo, grazie a una delazione anonima, un’inchiesta mirata ad accertare l’esistenza di pretesi progetti ebraici per la presa di controllo dell’industria nazionale”.
A rievocare così scomode memorie, c’è da chiedersi quanto sarà lunga ancora la strada per questa imprudente ricercatrice prima di trovare collocazione in un ateneo nostrano o avere l’onore di entrare nel catalogo di un editore benpensante. Negli ultimi anni, infatti, non sono mancate le coraggiose ricerche degli storici italiani, come non sono mancate le occasioni di rivedere profondamente le catastrofiche conseguenze della scelta di collocare artificiosamente l’Italia dalla parte delle vittime, anche al costo di negare le terribili responsabilità del passato. A mancare sono state una politica della Memoria, una volontà collettiva della società, dell’esecutivo, dell’accademia, dell’intero sistema culturale e dell’editoria di suscitare insieme quel salto di qualità collettivo che avrebbe garantito una maturazione reale dell’opinione pubblica italiana e una crescita effettiva della coscienza nazionale.
Se per scrivere la Storia, infatti, ci si accontenta di raccontare le vicende di un singolo individuo e della sua famiglia, si può compiere certo un’operazione apprezzabile e anche letterariamente interessante, ma ben difficilmente si può surrogare la necessità di fornire, proprio in questa stagione di negazionismo e di tante incertezze e soprattutto ai giovani, un quadro generale dentro al quale anche le sventure dei singoli e i loro comportamenti possono trovare una spiegazione.
E il contesto, quello dei tanti italiani dediti alla delazione, aspetta intanto ancora di essere portato definitivamente alla luce.
È quindi necessario che di questo libro importante e avvincente, ma anche, non certo per calcolo dell’autore, fuorviante per il vuoto ancora non colmato da nessun editore illuminato, parlino soprattutto gli storici, non i giornalisti. E per questo è importante che il mondo ebraico italiano si tenga ben al riparo dalla tentazione dell’anatema culturale. L’ebraismo italiano non ha niente da nascondere di fronte alla ricerca storica seria e non avrebbe alcuna ragione di cedere a tentazioni censorie che finirebbero per favorire solo chi vuole puntellare una propria storia di comodo. Che si faccia piena luce sui quei due sventurati delatori ebrei, a patto che si faccia un poco di luce anche su tutte le altre migliaia di farabutti che non agirono nemmeno sotto la minaccia della vita. E soprattutto che si faccia luce anche sul contesto e sulle responsabilità del regime in quella che fu l’Italia di allora.
Un discorso a parte dovrebbe essere poi dedicato alla straordinaria, a tratti appassionante, abilità dell’autore di evocare tanti aspetti paralleli del groviglio triestino. Trieste, infatti, non è soltanto una bella città per i turisti di passaggio. Per chi la conosce e ci abita resta soprattutto un luogo della mente, un crocevia della condizione umana e della storia d’Europa.
La figura di Saba, rosa dalla nevrosi identitaria, è evocata ad arte in tante sue contorte ambiguità quasi nell’opinabile speranza di contaminarla con l’ombra agghiacciante dei suoi vicini. Le sue parole, per quanto pesanti erano sfacciatamente esplicite: non dovrebbero essere strumentalizzate per farne l’ennesimo stereotipo dell’ebreo prigioniero dell’odio di sé. Per la stessa ragione è davvero indecente volerne fare un pedofilo come è accaduto in una recente e puerile titolazione dei giornali. Servirà forse a fare l’inventario delle sue fragilità (ma chi ne è mai stato esente, a Trieste?), si suppone possa essere utile a vendere copie (ma allora come mai di copie, fra libri e giornali, a Trieste e in Italia se ne vendono sempre meno?). Ben difficilmente tutto questo ci consentirà di comprendere meglio l’unica cosa che davvero ci resta: la sua poesia.
Al numero 30 della via San Nicolò la sartoria della famiglia Grini stava infatti proprio accanto alla libreria antiquaria dove Umberto Saba compose la più alta poesia del Novecento. Al piano superiore esercitava le funzioni rabbiniche quel tale che approdato a Roma e poi tratto in salvo da amici della Resistenza durante la Shoah, decise al termine del conflitto di abbandonare a se stessa la propria decimata comunità e di abbracciare la fede cattolica. A quello superiore nacque in tempi più felici il primo figlio di un James Joyce che dava lezioni di inglese a Italo Svevo. Solo pochi passi più in là, sulla stessa via, stava Rita Rosani, la maestra della scuola ebraica medaglia d’oro della lotta di Liberazione.
Aveva solo 23 anni quando sparò l’ultimo colpo che restava in canna per consegnarci il dovere di scrivere la storia di un’Italia migliore.

gv

(16 settembre 2015)