Pordenonelegge
La cultura unica possibile tutela
contro i misfatti delle dittature
A poche ora dalla conclusione e mentre si consumano le ultime battute di questa edizione 2015 Pordenonelegge lascia respirare l’aria del grande salto di qualità. Il festival entra nella sua età matura, e non solo per la crescita di qualità di un programma che in questi giorni di settembre ha offerto centinaia di incontri e innumerevoli occasioni d’incontro. Ma anche per la sua capacità di svincolarsi dal modello che mostra sempre di più la propria fragilità delle giornate di svago nelle città salotto tanto amate dall’Italia progredita.
Città operaia destinata a essere perpetua cerniera fra la maniera d’intendere l’operosità dei friulani e quella dei veneti, a combinare le aspirazioni forti, ma anche deludenti, della grande industria con le tradizioni di una piccola imprenditoria che continua a trainare l’Italia, Pordenone si sta rivelando uno dei territori più interessanti per sperimentare una via nazionale alla salvezza che passa attraverso importanti investimenti sulla cultura.
Anche gli scempi urbanistici che hanno degradato e distorto negli anni ’50 e ’60 la frettolosa crescita del tessuto cittadino si lasciano perdonare attraverso la capacità di distribuire su tutto il territorio le tante occasioni di incontro.
Il Festival, che richiama ormai nella Destra Tagliamento decine di migliaia di visitatori, continua a parlare anche a una popolazione interregionale attenta e disponibile a combinare il desiderio di fare cultura con il progetto di rendere la cultura un fattore economico di crescita.
Gli spunti offerti dal programma sono innumerevoli e l’interesse per gli enzimi ebraici che traspaiono in ogni angolo non si limitano certo alle occasioni di incontro con il giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche, che a Pordenone rappresenta ormai un appuntamento consolidato.
In una rapida successione durante le giornate del Festival le presenze si moltiplicano e il pubblico continua implacabile a mettersi ordinatamente in coda per riempire tutti gli spazi disponibili.
Di bellezza e utopia parla con Riccardo Mazzeo la filosofa ungherese Agnes Heller. Una ricerca, la sua, che ha preso le mosse dalle persecuzioni di cui è stata testimone, della scomparsa del padre nel gorgo della Shoah, del faticoso cammino della ricostruzione e della difesa degli ideali di democrazia e di progresso anche negli anni della dittatura stalinista.
La pensatrice ha discusso con Zygmunt Bauman, nel libro La bellezza (non) salverà il mondo, quali prospettive esistano affinché la bellezza possa rendere migliore il mondo in cui viviamo, ed è questo il primo punto di cui si parla a Pordenonelegge. Si passa poi all’attualità del libro di Thomas Moore, Utopia, pubblicato circa mezzo millennio fa, nel 1516: che cosa può suggerirci quel libro per illuminare il tempo presente, esiste un collegamento che non si è interrotto e che magari ha acquisito forza ulteriore nel corso di questi cinquecento anni? L’intervista si chiude prendendo in esame le utopie più fertili nella nostra epoca e i pericoli che si annidano nelle utopie stesse, il loro rovescio infernale, le distopie che non sono più quelle di Orwell, Zamiatin e Huxley del secolo scorso, ma piuttosto forse quella del libro di Michel Houellebecq La possibilità di un’isola.
Heller traccia con sicurezza i confini fra i territori della speranza praticabile e quelli delle ideologie divoratrice lo fa tirando le somme del suo lunghissimo itinerario di sopravvissuta, più volte scampata agli orrori del Novecento e alle incertezze del tempo presente. Assistente di György
Lukács all’università di Budapest, fu espulsa dall’ateneo nel 1959 e i suoi scritti sottoposti al veto di pubblicazione; riammessa nel 1963 all’Accademia delle scienze, divenne tra i più noti esponenti della cosiddetta Scuola filosofica di Budapest. Allontanata dall’Accademia nel 1973, nel 1978 accettò un incarico presso l’università di Melbourne per trasferirsi poi alla New York University, dove ricopre la cattedra intitolata a Hannah Arendt. La sua ricerca, ispirata a una lettura del marxismo in chiave antieconomicista e antropologica, è prevalentemente rivolta alla ricostruzione di un orizzonte etico.
Torna al momento cruciale del Novecento, sospeso fra distruzione e speranza di liberazione, il popolare romanziere americano David Leavitt. L’autore del Ballo di famiglia, che negli Usa insegna teoria e tecnica della scrittura nelle università, a Pordenone racconta i segreti del suo ultimo romanzo, I due Hotel Francforts, ambientato fra gli esuli in fuga dall’orrore del nazismo e del fascismo nella Lisbona del 1940.
Al mitico Café Suiça due giovani coppie americane attendono di essere imbarcate sulla nave che li porterà in patria sani e salvi. Sono giovani, belli, soprattutto sposati. Sono anche felici? I quattro ad ogni modo non potrebbero essere più diversi: Pete e Julia Winters arrivano da Parigi, dove per anni hanno diviso una doverosa e sedata vita coniugale; Edward e Iris sono sofisticati, bohemian, in preda all’ansia sociale ed erotica. Lo stato di sospensione neutrale del Portogallo è lo sfondo ideale in cui tutto si allenta e le apparenze a lungo mantenute iniziano a scricchiolare. Ognuno di loro tenta disperatamente di nascondere qualcosa: le origini ebraiche di Julia, l’improbabile intesa tra Pete ed Edward, gli ultimi disperati sforzi di Iris per non vedere la verità e salvare il proprio matrimonio
Leavitt, che in Italia è di casa, racconta molti risvolti di una storia profondamente intrecciata con i destini ebraici e svela molti dettagli di esperienze italiane che proprio al pubblico italiano e agli ebrei italiani rischiano spesso di passare inosservate.
Quello che ci è più vicino è a volte proprio ciò che è più difficile svelare e conoscere a fondo.
Così come Antonio Scurati, a Pordenone accompagnato da Emanuele Trevi ci aiuta a capire quello che avremmo dovuto sempre sapere. Che cosa ha rappresentato il No al fascismo dell’ebreo Leone Ginzburg e di coloro che lo affiancarono, raccontando Il tempo migliore della nostra vita, cui il giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche ha dedicato nelle scorse settimane un approfondimento. Il racconto di Scurati ci mette di fronte a Leone Ginzburg e ad altri forti personaggi di grande rilievo, illustri per destino e per vocazione, dipanando sotto i nostri occhi anche la storia delle persone comuni, delle memorie personali e della sparsa inadeguatezza dei documenti e dei “reperti” dell’esistenza: chi siamo noi nella storia?
La vicenda esemplare di Leone Ginzburg serve anche a comprendere come la letteratura e la cultura valgano anche e soprattutto se costituiscono un atto di ribellione contro l’ingiustizia e la discriminazione. Molta emozione e molta attesa serpeggiava proprio per questo motivo fra il pubblico al momento di incontrare Azar Nafisi, la letterata iraniana che conduce da lunghi anni una dura battaglia contro il regime di Teheran. Proprio in Iran la scrittrice ha insegnato letteratura angloamericana in varie università, finché le graduali restrizioni del governo degli ayatollah non hanno reso impossibile la sua opera. Nel 1997 si è trasferita negli Stati Uniti e nel 2008 ha assunto la cittadinanza americana. Oggi vive a Washington e insegna alla School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University. Nel suo primo libro, Leggere Lolita a Teheran (Adelphi 2004), racconta come la letteratura, frequentata in segreto e clandestinità negli anni bui di un regime mostruoso, costituisca per molti l’unica speranza di salvezza, l’unica via di fuga, ma anche l’unica premessa perché le cose possano effettivamente cambiare. Nel suo ultimo testo, La Repubblica dell’Immaginazione, che arriva ora in versione italiana, la scrittrice allarga i confini del territorio di libertà che vorrebbe presidiare e lo fa ripercorrendo le pagine memorabili di tre immensi autori americani: l’Huckleberry Finn di Mark Twain, il Babbit di Sinclair Lewis e Il cuore è un cacciatore solitario di Carson McCullers. Una grande lezione di letteratura che vale più di ogni altro strumento per combattere le prevaricazioni, ma soprattutto una lezione di amore per la libertà del pensiero e dell’espressione. Il bene più prezioso da tutelare, nelle mostruose dittature islamiche come da casa nostra, per preservare un mondo in cui la diversità e il confronto brillino come l’unico reale presidio, come l’unica prevenzione praticabile contro i misfatti della bestialità.
gv
(20 settembre 2015)