Jewish Emmy, la notte del trionfo
della scorrettezza in televisione

game of thrones emmy È di nuovo arrivato il momento dell’anno in cui tocca fare un bilancio di euforiche esultanze e cocenti delusioni, tra un po’ di sano glitter da red carpet e quell’affetto esagerato che si prova solo per i personaggi protagonisti di interminabili serie a puntate, dopo la notte degli Emmy Awards, i cosiddetti Oscar della televisione. E mentre ci si preparava a successi annunciati e domandava quali sarebbero state invece le sorprese di serie di nicchia portate alla ribalta o telenovele mielose ingiustamente premiate, in rete si moltiplicavano le “Guide ai Jewish Emmy”, per non farsi cogliere impreparati sulla massiccia presenza ebraica nel mondo del piccolo schermo. E la verità è che affidarsi a uno solo di questi vademecum non basta, perché ognuno di essi porta alla luce nuovo jewish pride.
E insomma, anche questa volta l’attrice israelo-statunitense Mayim Bialik di “The Big Bang Theory” torna a casa a mani vuote lasciando in preda allo scoramento gli affezionati che a ogni nomination che arriva puntuale tutti gli anni sperano sia finalmente quello giusto. E la stessa cosa vale anche per Alan Cumming, alias il manager ebreo Eli Gold di “The Good Wife”, che dopo sei stagioni ancora non ottiene la sinuosa statuetta.
Ciononostante, di certo il bottino dei Jewish Emmy non può dirsi magro. Tanto per cominciare il 2015 verrà ricordato come l’anno del grande trionfo – che non sorprende poi molto – di “Game of Thrones”, che in totale ha conquistato 12 premi. Tra cui quello per la miglior serie drammatica e la migliore regia, ma soprattutto quello per la migliore sceneggiatura conferito agli autori David Benioff e D.B. Weiss. “Eravamo due ebrei americani a Dublino, senza alcuna radice irlandese ma ossessionati dalla letteratura irlandese, che cercavano di trovare una palestra funzionale, che non è qualcosa di cui molti irlandesi fossero particolarmente preoccupati nel 1995”, aveva raccontato Weiss in un’intervista a Vanity Fair per spiegare com’è nata la felice collaborazione tra i due. Galeotti furono Joyce e Beckett, su cui scrivevano le rispettive tesi di master alla Trinity University. Benioff, originario di New York, ex insegnante di inglese, autore del romanzo “La venticinquesima ora” da cui Spike Lee ha tratto il celebre film, ha in realtà adottato il cognome di sua madre – il suo sarebbe Friedman – perché il suo nome fosse meno comune nel mondo di Hollywood dopo che aveva deciso che la carriera accademica che aveva intrapreso non faceva per lui. La famiglia di Weiss, nato a Chicago, aspirante sceneggiatore fin da subito, appassionato di videogiochi e di maniaco di tecnologia, ha invece origini tedesche.
Tiene il passo “Veep – Vicepresidente incompetente”, premiata tra le altre cose come miglior serie comica e la cui Julia Louis-Dreyfus, figlia del famoso avvocato francese di origine ebraica William Louis-Dreyfus, ha ottenuto il riconoscimento di miglior attrice protagonista per la sua interpretazione di Selina Meyer, che affronta la delusione e le difficoltà di aver perso le elezioni presidenziali ma non si arrende e lotta dalla sua posizione di secondo al comando.
E poi naturalmente c’è il “Daily Show” di Jon Stewart, che ha recentemente dato il suo addio al programma che conduceva su Comedy Central da sedici anni, lasciando il testimone e Trevor Noah. Stewart ha vinto l’Emmy come miglior varietà talk show, ma il tono generale è più “tanto senza di te non sarà più lo stesso, Jon”. Lo stesso spirito malinconico tra l’altro avvolge anche la vittoria di Jon Hamm come miglior attore protagonista in una serie drammatica per la sua interpretazione del tanto rimpianto Don Draper in Mad Men (del creatore Matthew Weiner), che dopo sette stagioni chiude in grande stile. Ed era annunciato, ma comunque celebratissimo, il successo della comica Amy Schumer, la cui trasmissione “Inside Amy Schumer”, che l’ha incoronata intrepida voce di una generazione perduta, ha vinto come miglior varietà di sketch.
Ma è “Transparent” la serie forse più Jewish di questi Jewish Emmy. A Jill Soloway è stato assegnato il premio per la migliore regia di una commedia, e a Jeffrey Tambor quello come miglior attore protagonista di una commedia. Cosa c’è di così ebraico in una serie tv che parla di un professore attempato, padre di tre figli, che decide di cambiare sesso dopo una vita di finzione? Tutto, dato che si tratta proprio di una famiglia ebraica, anzi la madre è proprio una, ebbene sì, rabbina. E in questo turbinio di vicende complicate e dichiaratamente politicamente scorrette, l’ebraismo non è solo un dato di fatto, ma ha proprio un ruolo, per cui ad esempio a un certo punto una delle figlie di Mort – o meglio, Maura – Pfefferman ha una crisi e non vuole più fare il bat mitzvah a una sola settimana dal gran giorno, e il padre accetta, segretamente sollevato visto che proprio quel weekend voleva partecipare a un ritiro per uomini transgender. C’è poi un che di autobiografico dal momento che il padre della regista Jill Soloway, cresciuta in una famiglia ebraica, nel 2011 ha dichiarato la sua transessualità. E Tambor stesso è cresciuto in una famiglia ebraica originaria dall’Ungheria e dall’Ucraina.
È dunque decisamente lo scorretto, vuoi quelllo degli sgozzamenti e tradimenti del Trono di spade, vuoi quello satirico di commedie moderne e pungenti, il vero vincitore di questi (Jewish) Emmy. Ma anche i tormenti trovano il loro spazietto, grazie alla vittoria di Uzo Aduba come miglior attrice non protagonista in una serie drammatica per il suo ruolo in “Orange is the New Black”, ambientata in un carcere femminile dove ci sono detenute pronte a convertirsi per poter avere i pasti casher con ottimi broccoli. E allora, si può chiudere questa stagione di passione televisiva con il giudizio della giornalista statunitense Rachel Shuckert: “La meravigliosa professione di fede di Adrienne C. Moore a un rabbino in visita, la sua realizzazione che nell’ebraismo ha finalmente trovato il suo popolo, il suo diritto a mettere in discussione, la sua vera identità, è stato il momento più strappalacrime della tv per me quest’anno, e quando completa la sua trasformazione estatica ma profonda facendo il mikveh nel lago appena fuori del cancello della prigione di Litchfield, non ho potuto fare a meno di sentire che stavo assistendo a una graduale, ma inconfondibile, trasformazione nel panorama della televisione”.

Francesca Matalon twitter @fmatalonmoked

(Nell’immagine il cast di “Game of Thrones” con le statuette degli Emmy Awards)

(21 settembre 2015)