Yom Kippur 5776
Rinnovarsi con il tikkun haolam

spagnoletto.לא בזכותא תליא מילתא, אלא במזלא תליא מילתא
Non dipende dai meriti, ma dal fato

Nella preghiera Undanè Toqef attribuita a Amnon di Magonza, vissuto intorno al 1000 forse però un paio di secoli più antica, in uso a Rosh haShanah e Kippur, si fa riferimento al giudizio di Dio che in questi giorni decide chi vivrà e chi morrà. Il nesso diretto è l’affermazione talmudica di Rabbi Keruspeday a nome di Rabbi Yochannan secondo la quale a Rosh HaShanah sono aperti di fronte all’Eterno tre libri. In uno vengono iscritti i i malvagi, in un altro i giusti, in un terzo quelli su cui pende l’indecisione fino a Kippur, giorno in cui si emana anche a loro proposito la sentenza di vita o di morte. Di qui l’importanza del ravvedimento e dell’esame di coscienza nei dieci giorni penitenziali.
Ma la questione non è così semplice. Nel talmud di Moed qatan, trattato che si occupa a lungo delle manifestazioni di lutto, ci si interroga se deve essere attribuito un significato all’età del trapasso e al numero dei giorni in cui uno è moribondo. Ad esempio, secondo Rabbà, morire tra i cinquanta e sessanta anni è un segno della punizione del Cielo, per scoprire però che il profeta Samuele è passato a miglior vita proprio a 52 anni. Ulteriori verifiche non reggono alla prova, molti rabbini della cui pietà e giustizia non è dato dubitare, infatti, si sono ricongiunti con il Creatore alle più svariate età, con o senza “sazietà di giorni”.
Sembra pertinente quindi portare l’insegnamento di Ravà secondo cui vita, prole e denaro non dipendono dai meriti ma dalla fortuna, tant’è che Rabbà e rav Chisdà, pii al punto che quando pregarono in tempo di siccità riuscirono a far piovere, morirono uno a soli quaranta anni, l’altro a novantadue anni; il primo poté godere di numerose gioie in famiglia, l’altro fu accompagnato tutta la vita da disgrazie; nella casa di un maestro c’era pane in abbondanza, persino per i cani, nella dimora dell’altro rabbino a stento si riusciva ad avere pane d’orzo per la famiglia.
I commentatori fanno notare le contraddizioni. Non era detto altrove che Israele non è sottoposto al mazal–fato? Forse la posizione di Ravà è rigettata a favore di un’ottica secondo la quale sono solo i meriti a incidere, o forse, esiste un’interdipendenza dei due aspetti e a volte la fatalità, che è predominante altrove, presso i figli d’Israele è solo ridotta a una condizione residuale; ma qualche volta ci mette lo stesso lo zampino.
All’uomo, sia egli religioso o laico, rimangono universalmente valide le parole, scandite come pietre, poste proprio al centro della splendida preghiera dei Yamim Noraim: il ravvedimento, la supplica (ma possiamo leggere anche l’esame di coscienza) e le opere di giustizia e solidarietà rimuovono il rigore del decreto Celeste. In questo sta il vero tikkun ha-olam.

Amedeo Spagnoletto, sofer

Pagine Ebraiche, settembre 2015

(22 settembre 2015)