Qui Firenze – Kippur, un giorno dedicato
alla riscoperta di se stessi
Il rabbino capo di Firenze, Joseph Levi, ha tenuto nel tempio di Firenze il seguente discorso in occasione del Kippur:
L’ultimo sabato, Shabbat Teshuvah, abbiamo riflettuto insieme sull’opportunità che i dieci giorni che intercorrono fra Rosh Hashanah e Kippur ci offrono di dedicare del tempo alla riscoperta e al dialogo con la dimensione divina insita nella nostra dimensione umana, nella nostra vita emotiva e mentale, nella nostra esistenza. Dedicando del tempo alla Teshuvah instauriamo un dialogo con essa, per andare verso una visione nuova della nostra vita. Una vita che non sia più frammentaria, casuale, priva di legami con il resto della società e dell’universo, mancante di prospettive e di legami che possano offrire senso alle nostra esistenza.
Se sabato scorso ho chiamato a dare spazio al dubbio, alla possibilità di aprire i nostri cuori all’ascolto del divino che vive e opera in noi, oggi, Yom Kippur, siamo chiamati a fare un passo in avanti:
שובה ישראל עד השם אלוקיך
דרשו השם בהמצאו קראוהו בהיותו קרוב
“Chiamate il divino quando è vicino a voi, tornate e andate senza nessun impedimento verso di Lui”.
La riflessione e lo sguardo profondo dentro il nostro animo e la nostra mente ci fanno capire che il vero riposo e la pace piena del nostro essere stanno nella consapevolezza dell’esistenza e nella presenza di Hashem. L’esistenza e la presenza divina in mezzo a noi ci fanno capire il legame ultimo fra le cose, il nostro inserimento nella totalità, l’armonia e la bellezza della realtà che ci circondano, la meraviglia delle leggi della natura, l’insieme della vita che si mantiene secondo regole fisse, la profondità di far parte di un’essenza che si muove, si unisce e si dissolve secondo un eterno programma ed una legge perenne.
ממעמקים קראתיך יה
“Dalla profondità del mio animo Ti ho chiamato e Ti ho riconosciuto Hashem”.
Si tratta della possibilità di uscire oggi, in questi momenti, dal dubbio verso la risposta affermativa, dell’evidenza della presenza del divino che si manifesta oltre che nell’armonia dell’universo e delle leggi della natura anche nel dialogo interiore con il divino che è dentro di noi, chiamandolo quando è vicino, sentendo le vibrazioni della Sua risposta dentro l’animo. Della risposta di un padre e di una madre che sentono il bambino o il neonato nella profondità del loro essere ancor prima di pronunciare e formulare nomi e parole. Della risposta e del dialogo che sente l’adulto quando si concentra non tanto sui propri diritti, protestando per ciò che gli manca, ma accoglie invece con gratitudine e gioia quello che ha ricevuto, con fiducia in se stesso e nel proprio rapporto con l’altro, sicuro della Sua presenza e del Suo supporto, riconoscente per quello che continua a ricevere gratuitamente dalla propria vita, da quel respiro vitale che nell’uomo si trasforma in capacità mentale e verbale di comunicazione e dialogo con l’altro umano e l’Altro divino.
Il dialogo col divino che è dentro di noi anima e rende viva e piena di speranza la nostra vita, e ci dona consapevolezza, rendendoci umani e divini allo stesso tempo, riempiendoci di profondo senso di gratitudine e riconoscenza.
Il divino, il sacro che brilla nello sguardo dell’altro, il pianto di un neonato, il fenomeno della vita, tutto questo muove e risveglia in noi tale presenza e dialogo, ci fa capire che cosa significhi essere creati ad immagine divina, del divino che suona nel profondo del nostro animo, della nostra psiche, della nostra mente, e ci offre la possibilità di dialogare l’universale.
“Ad immagine di D-io li creò”.
L’immagine divina si riflette nel nostro respiro emotivo e intellettuale, nel nostro essere un’entità sociale e pensante con una lingua che unisce emotività ed intelletto, regole e sentimenti, forma ed essenza.
E per noi ebrei essa si riflette anche nella bellezza della lingua ebraica, la lingua dei profeti, che unisce in forme verbali regole e forme dell’essere, espressione del dialogo con la divinità.
Nell’Amidah chiediamo che ci venga data la possibilità di vivere la nostra vita:
Beor Paneicha, באור פניך, “nella luce del tuo sguardo”.
Berechenu hashem beor paneicha, ברכנו השם באור פניך, “benedica ed illumini Hashem la nostra vita, con la luce benevole e misericordiosa del Tuo sguardo”.
La consapevolezza e la gratitudine per quello che riceviamo ogni giorno ci guidano e rendono possibile e accessibile per noi il perdono. Grazie a esse è facile perdonare i misfatti e gli errori dell’altro che, perso nel proprio sentimento di mancanza e di miseria, ha pensato di poterci togliere qualcosa. La capacità di perdonare altro uomini ci garantisce il perdono divino per i nostri errori, per i nostri momenti di debolezza e per il sentimento di mancanza che ci ha portati a voler togliere qualche cosa dall’altro, pensando che forse è più valida e importante le nostra vita della sua.
Tutti i voti e le promesse negative che abbiamo fatto durante l’anno, con preghiera di Kol Nedarim sono stati resi invalidi e non esistono più.
Ecco perché, prima ancora di chiedere il perdono di Hashem, dobbiamo essere noi stessi in grado di perdonare, di capire la sofferenza e l’afflizione dell’altro, per chiedere ad Hashem di ascoltare la nostra sofferenza e afflizione e di perdonarci. HaShem, che ci guarda e ci contiene con uno sguardo allo stesso tempo paterno e materno di perdono, ci invita alla crescita con l’aiuto e la guida delle mitzvot, norme di vita per noi stessi e di comportamento nei confronti degli altri esseri umani, della natura e di tutto l’essere.
La Teshuvah, alla quale siamo chiamati oggi, consiste nel ritrovare l’armonia dei legami che ci unisce tutti l’uno all’altro e all’universo intero. Significa uscire dai nostri particolarismi, dai nostri egoismi.
Lo sguardo dell’altro, la vita che brilla sul suo volto e pulsa nel suo respiro ci ricordano l’origine divina della nostra stessa vita e ci rendono impossibile fargli del male, anzi, ci spronano a essere generosi con lui, a spianargli la strada, a far brillare l’anima divina che è in lui per far splendere l’immagine divina che è in noi, accrescendo lo splendore della vita stessa. Come abbiamo ricordato per Rosh Hashanah, la gratitudine per lo splendore della vita che vive in noi ci obbliga a non rimanere inerti di fronte alla sofferenza dell’altro che spera nel nostro aiuto.
Gratitudine, perdono, consapevolezza e pentimento per i nostri errori e per il nostro egoismo ci permettono di allargare lo sguardo e di vedere e capire la nostra stessa vita in un contesto più ampio, per salire i gradini della Teshuvah e della scoperta della presenza divina in noi e nel resto dell’umanità e dell’universo.
Tutte queste sensazioni, questi pensieri, questi propositi e aspirazioni, insieme al digiuno, che ci invitano a dare meno importanza al cibo e agli aspetti materiali della vita.
Allora il riassestamento, la Teshuvah e il perdono sono possibili e reali. È avvenuto il cambiamento, il rovesciamento dei nostri cuori. E dal digiuno di Kippur usciamo diversi, forti, purificati.
ובכן מה נורא מראה כהן גדול בצאתו בשלום מן הקודש
“Quanto era bello l’aspetto del sommo sacerdote quando usciva indenne e in pace dalla dimora del sacro, dal tempio”.
L’incontro con il Kodesh, con la sacralità della vita e del divino che splende in essa, ci trasformerà, da questo Kippur fino all’appuntamento col Kippur del prossimo anno, quando avremo di nuovo la possibilità di toccare con le mani la nostra esperienza vitale la presenza e la vicinanza della Shekhinah.
Auguro quindi alla nostra Comunità e ad ognuno di trovare la volontà e la forza di riconsiderare, di ridefinire la propria vita al di là della quotidianità. Uno sguardo di umiltà, di gratitudine e di perdono verso quelli che ci circondano: i nostri figli e coniugi, i nostri genitori e parenti, le nostre famiglie e la nostra stessa Comunità, rafforzati da un benessere emotivo di coerenza, inseriti in un contesto sociale coeso che apprezza e riconosce il valore di ognuno. Allora potremo volgere lo sguardo anche al resto della società, a chi soffre e ha bisogno di noi, e saremo capaci di offrire il nostro talento, i nostri beni e la nostra bontà per alleviare il dolore e migliorare il mondo in cui ci siamo trovati, offrendo agli altri il bene che è stato offerto a noi.
Auguro alla nostra Comunità di ritrovare in questo anno la coesione, l’unione e la bontà di cuore, superando inutili e insignificanti arrabbiature e pseudo-conflitti, frutto della nostra concentrazione su ciò che manca, per volgere invece lo sguardo alle forze positive, alle energie e alle grandi potenzialità e risorse che abbiamo. Dando ad ogni membro della nostra collettività la possibilità, lo spazio e l’occasione di offrire il bene che ha, le qualità personali delle quali è dotato, potremo tutti insieme aiutare il Consiglio presente e quello futuro a costruire una Comunità forte che si riconosce nella preghiera e nell’affermazione che ci unisce tutti in quanto Kehal Israel Kehal Kodesh:
Shemà Israel haShem Elokeinu haShem Echad. שמע ישראל השם אלוקינו השם אחד
Israele e Kadosh Baruch Hu sono un tutt’uno.
E finalmente stasera, in chiusura del digiuno, potremo dire: לך אכול בשמחה לחמך ושתה בלב טוב יינך
“Torna a mangiare con un cuore leggero il tuo pane e bere con gioia il tuo vino, perché il tuo D-io ti ha già perdonato”.
Joseph Levi, rabbino capo di Firenze
(24 settembre 2015)