Non puoi nasconderti
Quando abitavo in Israele, uscivo con un gruppo di ragazzi americani, israeliani e anche una svedese. La ragazza svedese aveva una specie di shock climatico-culturale per il caldo torrido in estate e per l’incontro con la burocrazia universitaria. I ragazzi americani, in particolare uno che aveva appena fatto l’Alyiah, affrontavano con maggiore elasticità la vita gerosolimitana, tranne qualche perplessità sulla disinvoltura nella gestione dei rapporti interpersonali e sulla mancanza di certi formalismi nel rispetto delle gerarchie (anche se non ho mai compreso lo sconcerto di poter fare amicizia con altri studenti israeliani, in occasione della condivisione di un taxi per scendere da Har HaTzofim in città. Non sono saltata sul taxi di nessuno; ho solo chiesto ad una coppia se potevamo aggregarci e dividere la spesa! E questa è stata occasione per una bellissima amicizia che si protrae ancora oggi, seppure a distanza).
Tutti però erano d’accordo su una cosa: la poesia del film diretto da Marco Tullio Giordana e uscito nelle sale nel 2005, “Quando sei nato non puoi più nasconderti”, da qualcuno di loro già visto e riguardato tutti insieme su insistenza di un amico cinefilo che aveva vissuto e studiato in Italia.
Ripenso ora, nei Yamim Noraim, a questo film e alle discussioni che ne erano scaturite grazie al fresco della sera che permetteva di iniziare a respirare, berci una birra ghiacciata e conversare in giardino. Il proverbio africano che ispira il titolo del film, tratto dall’omonimo romanzo di Maria Pace Ottieri, mi ricorda non solo la vicenda del bambino protagonista (proveniente da una famiglia bene, salvato da un barcone di migranti dopo essere tragicamente caduto in acqua durante una crociera con il padre) ma anche la responsabilità umana di respingere lo Yetzer Harà, l’inclinazione al male.
La tentazione del male, direi piuttosto: di esprimere giudizi affrettati, di fare maldicenza o anche semplicemente di accettarla per opportunismo o mancanza di coraggio, di scivolare nel conformismo del seguire l’opinione della maggioranza, di non metterci nei panni degli altri per provare a capirli o anche solo provare ad interrogarli se abbiamo dei dubbi. Invece Sandro, il piccolo protagonista del film, fa meglio dei suoi genitori, i quali reagiscono con sdegno al furto commesso da due piccoli immigrati mostratisi solidali con il bambino salvato sul barcone, e che di fatto proteggendolo dall’avidità degli scafisti ne avevano salvato la vita.
Il bambino si chiede infatti come mai i due piccoli compagni di viaggio, dopo essere stati accolti in casa, ne abbiano rubato soldi e beni per fuggire, interrogandosi su povertà e bisogno, senza esitare ad accorrere in aiuto della piccola amica quando costei gli telefona implorando aiuto. Per scoprire una realtà ancora più dolorosa: i suoi amici non sono fratello e sorella, e il ragazzino che lo ha aiutato durante il viaggio in mare è il protettore della bambina costretta a prostituirsi. Il giudizio resta sospeso, mentre noi ne parliamo animatamente. Giudizio e misericordia vengono sempre insieme, e Rav Crescenzo Piattalli ci ha insegnato, citando Rabbi Shim’on bar Yochai, che proprio per questo ci sono due giorni per Rosh Hashanah: nel primo giorno D-o giudica il mondo con rigore, e nel secondo interviene la misericordia. E nella Derashah tenuta nel Tempio a Siena il secondo giorno della festa, Rav Piattelli ha ripreso un testo del rabbino Hassidico Naftali Tzvi Horowitz di Ropshitz (1760–1827), autore dello Zera Kodesh. Rabbi Naftali di Ropshitz, nato il giorno in cui morì il Baal Shem Tov, potrebbe piacere molto a mio figlio Leone, sempre intento ad indagare gli aspetti di Kadosh Baruch Hu che lo avvicinano alla nostra percezione umana: dopo aver dato all’uomo lo Yetzer Harà affinché possiamo usare il nostro libero arbitrio per respingerlo, D-o avrebbe visto che siamo come bambini piccoli con un’arma in mano, e che respingere la tentazione al male è impresa spesso troppo ardua per noi uomini. E quindi anche il Signore farebbe Teshuvah, dispiacendosi di averci fatto un dono troppo difficile da gestire. Ma se anche D-o può pensare di avere in qualche misura sbagliato, diventa forse più facile ammetterlo anche noi.
Sara Valentina Di Palma, ricercatrice
(24 settembre 2015)