Radicali senza radici/1
Esiste una destra radicale, oggi, e in caso affermativo in cosa consiste? Non di meno, si tratta di un’area politica capace di esprimere un qualche protagonismo oppure è solo un soggetto emarginato e, per più aspetti, residuale? Se negli anni Sessanta e Settanta essa costituiva un presidio ‘antisistemico’, ovvero avverso alla democrazia repubblicana in quanto tale, in Italia così come in Europa, il mutamento del campo del politico e della stessa politica ha senz’altro contribuito a mutarne una parte dei suoi connotati. Insieme ad essi, anche il suo radicamento e i soggetti che rappresenta a tutt’oggi. Il transito più importante è senz’altro quello che si è consumato nel rapporto con i fascismi storici. Usiamo il plurale poiché in Europa le esperienze fasciste, dalla fine della Prima guerra mondiale fino ai due decenni precedenti alla caduta del muro di Belino, nel 1989, sono state molteplici. Parte d’esse, come ben sappiamo, si sono costituite in veri e propri regimi politici. Alcuni effimeri, altri assai più consistenti. La matrice fascista era, nel qual caso, variamente pronunciata. Non sempre in maniera esplicita o comune – e quindi immediatamente riconducibile – ad un unico modello. Se esiste una tipologia di riferimento, a partire dall’esperienza italiana, concretamente vi sono state poi molte diramazioni. Altre esperimenti invece, si sono mantenuti all’interno di singoli movimento politici di opposizione, molto spesso minoritari. Sta di fatto che la destra radicale ha costituito l’area di riferimento dei neofascismi dal 1945 in poi. E quando si parla del radicalismo di destra si possono intendere molte cose ma la prima di esse è non solo la visione illiberale delle relazioni sociali bensì soprattutto l’avversione per qualsiasi forma di democrazia, intendendo tale regime politico come il governo dei mediocri e dei non aventi nessun titolo nell’esercitare diritti su di sé. Tale area politica e culturale si è alimentata delle rovine di quello che restava dei fascismi storici, a volte identificandosi anche con i motivi del nazismo, più raramente distinguendosene. Inutile rimarcare il fatto che razzismo e antisemitismo ne sono due architravi, mai abiurate, un po’ in tutte le concrete declinazioni possibili e immaginabili. La stessa sconfitta tedesca, e del patto politico-militare dell’Asse, è stata ossessivamente attribuita al ‘giudeo-bolscevismo’, alle sue mene e ai suoi complotti. In assenza di una totale coerenza logica e verosimiglianza storica, l’azione degli Alleati angloamericani a sua volta viene letta come il prodotto delle ‘forze occulte’ raccoltesi intorno all’ebraismo. La lettura della storia come di una dicotomia razzista, dove da un parte si collocano gli ebrei e i loro ‘servi’ e dall’altra le forze della razza pura, quella ariana, è quindi uno dei miti rifondativi della destra radicale. Si tratta, a stretto giro, di una sorta di tessuto connettivo, sul quale quell’area politica, ammaliata anche da un reducismo vissuto come la sconfitta dei giusti (“abbiamo avuto una sola colpa, quella di soccombere dinanzi alla forza soverchiante dei nostri nemici, tanto più immondi perché guidati da una razza infame”), ha cercato di raccogliere consensi. Tutto ciò è valso fino a lustri relativamente recenti. Poi, il cambiamento di scenario internazionale, con i processi di globalizzazione, già avviatisi con gli anni Settanta, accelerati nel decennio successivo e consolidatisi con il nuovo secolo, ha mutato i termini della questione. Anche la destra radicale si è dovuta confrontare con due fenomeni distinti ma interagenti: da una parte lo spostamento del baricentro dell’azione politica sui fondamentalismi a matrice religiosa, depositari di una visione non meno totalitaria di quella espressa dal neofascismo; dall’altra, la crisi della politica come terreno sia di rappresentanza che di decisione, quanto meno nelle società occidentali. I due fattori, non a caso concomitanti, hanno costretto la destra radicale a rivedere, a volte anche in maniera molto netta, alcuni dei suoi presupposti. La transizione, del pari a quanto è avvenuto in non pochi paesi d’Europa, si è consumata negli anni che accompagnano il 1989, ponendosi come un vero e proprio spartiacque tra un prima e un poi. Poste queste premesse storiche, quali possono essere le principali caratteristiche della destra radicale oggi? Essa sussiste senz’altro come arcipelago di gruppi variamente articolati, sospesi tra l’essere “partito”, aggregazioni continuative a sfondo sociale, movimenti politici. Peraltro, la tendenza a figliare da se stessa, staccandosi e rigenerandosi con nuovi nomi, è pari solo allo sfiancante esercizio fatto tra le file della sinistra estrema. Nel caso italiano, per intenderci correttamente riguardo ai soggetti dei quali si va parlando, è bene tuttavia circoscrivere l’area intorno a CasaPound, il Fronte nazionale di Adriano Tilgher e Tommaso Staiti di Cuddia (già Lega nazionalpopolare e poi Alternativa nazional-popolare), Forza Nuova, il Movimento fascismo e libertà (altrimenti detto Partito socialista nazionale) fondato da Giorgiò Pisanò, quest’ultima figura storica del reducismo saloino e icona del neofascismo più tradizionale, il Movimento sociale-Fiamma tricolore, attualmente retto da Attilio Carelli (dopo la fuoriuscita di un congruo numero di dirigenti e l’espulsione di Luca Romagnoli, quest’ultimo fondatore infine di Destra sociale) e il Mis, Movimento idea sociale fondato da Pino Rauti sei anni prima della sua morte, come scissione dalla formazione precedente. Tutto intorno, c’è una polvere di micro-sigle che come nascono muoiono anche molto velocemente. Se tuttavia si intende come destra radicale un habitat sub-culturale, oltre alle diverse organizzazioni politiche, allora occorrerebbe riflettere sui circuiti musicali ‘alternativi’, così come sui luoghi fisici di aggregazione, a partire dalle curve degli stadi e dalle organizzazioni di ultras. Necessario sarebbe poi indagare, per estensione, in alcuni ambiti non strutturati del Movimento 5 stelle, soprattutto laddove sono transitati elementi che, pur non vantando una precedente militanza organica alle formazioni della destra radicale, tuttavia hanno conferito in quota capitale argomenti e suggestioni permutati da quell’area. Ad esempio, l’attenzione in politica estera per l’Iran, visto come una legittima potenza teocratica (quindi rigorosamente antidemocratica) e il marcato antisionismo. Si tratta di un esercizio sottotraccia, in quest’ultimo caso, dovendo vagliare i sedimenti nelle pieghe del discorso politico, ma che meriterebbe di essere condotto con un’attenzione che spesso difetta, riconducendo invece il tutto al calderone populista. Che di per sé spiega sempre meno. Così come ancor di più tale indagine si impone per alcune componenti della Lega di Matteo Salvini. Detto questo, rimane il fatto che la traccia comune, tra l’ampio pulviscolo di gruppi, organizzazioni, soggettività e quant’altro che entrano di buon grado a comporre il mosaico del radicalismo di destra, è il rimando all’aggettivo ‘sociale’. La destra radicale odierna, infatti, si intende come un soggetto sociale, laddove con ciò indica la sfera di azione sotto la quale essa si è rigenerata, nel nome di una veracità e di un’autenticità che alle altre forze politiche, rappresentative di interessi sovra-ordinati rispetto alla società, mancherebbero. A tale riguardo, quindi, non afferma di ritenere prioritario lo Stato, lo Spirito, la Tradizione (espressioni un tempo abituali, comunque ancora adottate con la maiuscola, a segnarne l’indiscutibile rilevanza, ma oramai solo per una platea di eletti, ossia di iniziati). Alla collettività si rivolge, semmai, rinviando al bisogno di una rappresentanza nei termini dei suoi bisogni materiali. Tradizionalmente, questo era il campo della sinistra, lasciato ora perlopiù indifeso anche per l’oggettiva difficoltà nel raccogliere in categorie unitarie (classi, ceti, gruppi omogenei) i soggetti dell’azione politica. L’aggettivazione ‘sociale’, per la destra radicale, si declina in tre modi: il sovranismo, l’etnicismo e l’identitarismo.
Il sovranismo rimanda alla difesa materia e simbolica di uno spazio fisico, identificato con il territorio e la giurisdizione dello Stato nazionale (in ciò recuperando l’approccio statolatrico già presente nei fascismi storici ma non nel nazismo).
L’etnicismo è la perimetrazione di tale spazio attraverso il rinvio al vincolo di stirpe, perlopiù inteso come comunanza, se non identità, di cultura basica, ossia condivisione di un set di elementi, anche fisiognomici e razzisti, ma soprattutto comportamentali, linguistici e relazionali che stabiliscono una reciprocità assoluta tra i membri del gruppo. La fissità di tali caratteri, nonché la loro astoricità, che li rende quindi indisponibili a qualsiasi negoziazione con terzi, pone i membri stessi in un perimetro identitario che è tanto più forte quanto poco o nulla disponibile al confronto con ciò che fuoriesce dalla dimensione autoreferenziata. L’identitarismo diventa così la risposta alla democrazia e alla sua crisi: se essa declina, come insieme di funzioni di garanzia condivise, di rappresentanza collettiva e di redistribuzione della ricchezza sociale prodotta, il comunitarismo identitario, il sentirsi parte di un’unica “patria”, sancita non dalla cittadinanza bensì dall’identità etno-razziale, viene proposto come la soluzione ai molti dilemmi che tale declino produce. In poche parole: laddove la globalizzazione è neutralizzazione dei confini tra gli Stati, con il senso di vertigine che da ciò deriva, per la destra radicale la risposta a tale stato di cose sta nell’accettare la sfida che un simile processo storico implica costruendo un nuovo perimetro basato non sull’eguaglianza dei diritti ma sull’omologia dei caratteri biologici e culturali. Il caso ungherese si inscrive di buon grado in questa dinamica.
Claudio Vercelli
(1/continua)
(4 ottobre 2015)