identità…
Ricordo con frustrazione profonda i giorni dopo le feste di Tishri quando, maestro in una piccola comunità ebraica d’Italia, vedevo la sinagoga svuotarsi dei tanti volti e dei tanti passi e tornare al suo essere luogo consono per pochi. Ricordo le ansie rispetto a tutti coloro che non avrei rivisto se non in capo a un anno e che erano figli del mio popolo, ma le cui vite erano altrove, destinate ed educate verso “l’altrove.” Ricordo i giorni di tristezza per tutti coloro che sarebbero dovuti essere e che non erano, per tutto il futuro che sarebbe dovuto essere parte di quella piccola comunità (così come di altre) e che non lo era. Ricordo che come Ignazio Silone in Fontamara mi chiedevo incessantemente: “Che fare?” Di fronte a questo mare di gente nostra eppur lontana, che fare? Di fronte a chi non ha voluto o saputo o potuto educare ebraicamente, che fare? Di fronte a quello che altro non è se non assimilazione, che fare? Ricordo uno Shabbat Bereshit quando mi cadde tra le mani una poesia di Kavafis, “figlio di ebrei”: “ Fu pittore e poeta, corridore e discobolo,
Iante d’Antonio, bello come Endimione. / Cara alla Sinagoga la sua gente. / “Quelli sono i miei giorni più preziosi, / quando abbandono la ricerca estetica / e lascio l’ellenismo ardito e bello, con la sovrana cura / delle bianche, perfette, corruttibili membra, / Allora sono quello che vorrei / essere sempre: figlio d’Ebrei, dei sacri Ebrei.” / Dichiarazione troppo ardente: “Sempre figlio di Ebrei, dei sacri Ebrei.” / Non fu così. Non fu così. Chè l’Arte e l’Edonismo d’Alessandria l’ebbero / Loro figlio, iniziato, consacrato.”
E forse in quello Shabbat Bereshit con la poesia di un goy che esaltava la bellezza della perdita di sé nel mare della cultura ellenica, non conoscendo la bellezza di ciò che siamo e del nostro mare, fui portato a pensare che bisogna fare di tutto affinché gente come Iante d’Antonio sia sempre “figlio di Ebrei, dei sacri Ebrei.”
Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
(9 ottobre 2015)